Una mostra “a basso contenuto materico” nel Palazzo Fabroni di Pistoia
La ricerca sonora incontra le sperimentazioni visive di un collettivo di artisti contemporanei per evocare il tema dell’ibridazione, attraverso il poco visibile ma pienamente “sensibile”
Se potesse, la matrice poverista di cui si compone il nucleo principale della collezione di Palazzo Fabroni – museo di arte contemporanea della città di Pistoia, con nomi del calibro di Luciano Fabro, Jannis Kounellis, Claudio Parmiggiani, Alfredo Pirri – applaudirebbe con gusto la mostra Mezz’aria, collettiva curata da Gabriele Tosi e Nub Project Space. Il progetto ha il grande merito di non cercare un legame storico con il luogo e il territorio a tutti i costi (atteggiamento che talvolta crea vincoli forzosi, come spesso è accaduto in diverse istituzioni toscane), invero adatta una serie di ricerche artistiche già rodate, nonostante giovanissime presenze, e puntualmente selezionate, agli spazi a disposizione del museo, convogliando un’esperienza plurisensoriale e invitante per la potenzialità del targetcoinvolgibile, considerando anche il programma live.
La mostra Mezz’aria a Pistoia
Gli artisti proposti sono tutti ricercatori nel campo delle sonorità, per quanto tutti ben consapevoli di come l’apparato visivo sia diventato un elemento rilevante nella restituzione di una performance. Quello che si ammira in Mezz’aria, la strana apertura della ricerca sonora è a tutti gli effetti una visione minimale di forme e oggetti, alcuni quasi impercettibili nel vuoto dei locali; ma pure sussiste un corpus unico e coerente che rende appagante il percorso, costruito interamente nella parte sopraelevata del Palazzo, a mezz’aria, appunto. La sospensione, raramente disturbante, viene calibrata sia nella disposizione dei pezzi esposti sia nel concept curatoriale, sviluppato a sei mani tra il curatore Gabriele Tosi e il duo composto da Federico Fiori e Francesca Lenzi, fondatori di Nub Project Space e ideatori del progetto online Licheni, cui la mostra del Fabroni è la naturale propaggine scenica, in quanto viene sempre precisata un’intenzionale tendenza all’ibridazione, sia artistica che umanistica, oltre a rimarcare l’attenzione per il poco visibile, vagamente tattile, pure pienamente “sensibile” e intuibile. Si potrebbe parlare di basso contenuto materico.
Certamente il “trucco” scenico delle gelatine poste sulle finestre così da azzurrare tutto l’ambiente aiuta molto a creare il contesto; tuttavia, di fatto, il risultato emerge dal dialogo collaborativo tra gli artisti coinvolti, ben sedici, equamente diffusi e sinergicamente propositivi per cogliere il progetto della mostra come un’occasione nuova di sperimentazione. Tra le numerose interattività e il sottobosco di significati (propri o inopportuni che siano) annotabili nelle narrazioni delle singole ricerche, sono da ricordare due momenti emblematici perché ideali sintesi dell’apparato collettivo: Passo incrociato e Il bambino e la caccia.
Le opere in mostra a Palazzo Fabroni
La prima proposta vede interagire l’intervento concettuale trascritto agli angoli delle pareti di Francesco Cavaliere (Piombino, 1980), testo riferito alla sua pubblicazione Gancio Cielo: DNA Clepsydra (Nero, 2022) – in cui si fantastica di una popolazione dalla camminata laterale, quindi un passo incrociato – con la voce filodiffusa di Giulia Deval, la quale intona l’andatura incrociata dello zebrasino (detto anche Zonkey). Il tema dell’impronta e soprattutto dell’ibridazione (l’incrocio equino, il filamento di DNA) è calzante nell’esprimere la “perdita di equilibrio stabile” evinta per tutta la mostra, avvalendosi dell’interessante allusione all’archetipo della croce, segno distintivo di una pratica materiale, artigiana, che va dalla trama del cucito fino alla texture della tecnica incisoria. Tracce evidenti, ma paradossalmente poco visibili, una materialità evocata.
La seconda proposta, invece, concilia l’installazione di Riccardo La Foresta (Modena, 1989), delle pelli protettive per casse e tamburi disposte sul pavimento, con la ricerca informale di Marco Baldini su La Caccia (Da Arpocrate Seduto Sul Loto), una delle prime pubblicazioni di Walter Marchetti, musicista avanguardista epigono di John Cage. L’arte venatoria, tema ricorrente in questa stanza, viene presentata con un giudizio sospeso, né negativo né positivo, proprio di un rituale di per sé insito nella natura umana per quanto sfiori l’anacronismo. Il Bambino rappresentato nel pannello, altri non è che Arpocrate, divinità egizia spesso evocata come simbolo di fertilità ma fraintesa nella lettura classica come nume della silenziosità in contemplazione dei misteri mistici: il dito sulla bocca, tra piacere e silenzio, attiva un dinamismo semiotico e coinvolge il pubblico nella libertà di fruire il locale, sia come ludico e rumoroso happening di plastiche schiacciate, sia come riferimento agiografico e mitologico.
La sospensione, come già enunciato, pervade tutta l’esposizione di Palazzo Fabroni e premia una gradevole scelta di fruizione, collettiva o individuale. La volontà di un museo di arte contemporanea di aprirsi alla sperimentazione e all’inclusività è un concetto affatto scontato, nonostante la proclamazione unanime, pertanto è giusto riconoscerla nella professionalità di un progetto criticamente riuscito.
Luca Sposato
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