Il confronto con la malattia nella mostra di Tracey Emin a Roma
Si mostra vulnerabile e indugia sulle cicatrici dell’anima oltre che sulla precarietà del corpo l’artista inglese che consegna a chi guarda autoritratti voluttuosi ed evanescenti
Fin dove ci si può spingere nell’arte? Viene da chiederselo partecipando a You Should Have Saved Me, che segna il ritorno della grande artista Tracey Emin (Londra, 1963) alla galleria Lorcan O’Neill. Nella disarmante condivisione della sua urostomia e di una collaterale, quanto rimarcata, astinenza sessuale, l’exYoung British Artists cristallizza il suo recente vissuto in una materia pittorica diacronicamente stratificata, dalla quale riaffiorano voluttuosi ed evanescenti autoritratti.
La mostra di Tracey Emin a Roma
In mostra opere confessionali indugiano sulla precarietà del corpo, quanto su cicatrici ancora più profonde: tracce intime, vulnerabilmente trasposte su carta o su tela, che instillano la retorica di una “cura”ricercata nei tempi meditativi del processo pittorico. In tal senso l’emblematico titolo di questa personale potrebbe sottendere una sorta di biasimo per l’evocazione salvifica di You Saved Me del 2012. Palesemente difforme dalle altre, l’omonima opera You Should Have Saved Me diviene l’icastico manifesto di questa mostra, delineando, nella sua essenziale raffigurazione, la minaccia di un cambiamento in atto, connaturata e speculare a Pubertà di Edvard Munch. Tuttavia vengono trattate tematiche anche precedenti al cancro, reiterate fin dall’installazione My Bed e qui enunciate in The Crucifixion, che ne enfatizza il travagliato percorso nell’affermarsi come pittrice (e artista) in un ambito a primato maschile.
Rossella Della Vecchia
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