Dipingere per abrasioni. Tiziano Martini in mostra a Brescia
Una pittura per sottrazione, sfruttando la casualità, l’incidente, materiali e tecniche industriali. Perché non fare lo sgambetto allo spettatore?
Ci sono pittori che amano prenderti per mano, altri che preferiscono farti lo sgambetto. Tiziano Martini (Soltau, 1983; vive e lavora in Val di Zoldo) è immancabilmente uno di questi. Lo testimonia la sua personale Andreae presso A+B, corredata da un testo di Roberto Lacarbonara, in cui l’osservatore si trova immerso tra quadri di grandi dimensioni dalle tinte urticanti.
La mostra di Tiziano Martini a Brescia
Si viene soverchiati, in un’orgia cromatica in cui risulta impossibile leggere l’opera nella sua interezza. Sono infatti solo gli infiniti piccoli episodi pittorici a parlare all’occhio, spingendolo a vagare in un’orbita di alternative come un elettrone vortica stordito attorno al suo nucleo. Non c’è centro, non c’è ordine o composizione, poiché le immagini – aniconiche – sono del tutto basate sul processo. Ma in maniera irrituale.
Siamo abituati a considerare la pittura come un procedimento additivo, in cui il colore si stratifica aggrumandosi sul supporto. Le immagini di Martini, invece, avvengono per sottrazione, poiché l’artista abrade il colore (pernici poliuretaniche) prima distribuito sulla superficie fino a quando un evento casuale diventa pittoricamente significativo e merita di essere tenuto/mostrato. Martini fa della pittura quello che Apollo fa del corpo di Marsia: rimuove la pelle fino a denudare i tessuti sottostanti, privandolo del derma con cui generalmente si presenta al mondo. E poi tutto viene protetto da uno strato trasparente, che apparentemente elimina ogni retorica o eroismo del fare. Il quadro, pur geologico nel processo esecutivo, diventa così una superficie piatta e atemporale, quasi ceramica, in cui potersi specchiare. E, da vicino, stordire in modo lisergico.
Daniele Capra
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