A Carrara la mostra di allieva e maestro a confronto sulla scultura
Piergiorgio Balocchi e Beatrice Taponecco, maestro e allieva, espongono a Palazzo Binelli creazioni frutto di una profonda riflessione sulla natura, matrice ispiratrice dell’arte
A Palazzo Binelli nel pieno centro di Carrara, A tu per tu è una mostra intima e invita al raccoglimento, è una mostra a margine rispetto alla presunzione dell’arte monumentale. Superata e lasciata elegantemente alle spalle la crisi dei tempi di Arturo Martini, la scultura vibra, pulsa, risplende in mille ritrovati di un repertorio, una camera delle meraviglie. Sì, perché il connubio fra Piergiorgio Balocchi (Siena, 1954) e Beatrice Taponecco (Sarzana, 1987) produce il canto di mille foglie d’acero, ma anche “…la notte in punta dei piedi”, le passeggiate nel bosco, il silenzio che scende fra i cipressi, voce, ombre e colori dall’eternità.
Carrara e la scultura
Beatrice, creatura dei boschi, approda all’Accademia di Belle Arti di Carrara, che sarà presto un’isola felice, fucina di lavoro e di ispirazione; Piergiorgio, il suo maestro, a Carrara ci è arrivato intorno al 1977, e nei laboratori di polvere ne ha macinata dai tempi di Cherubino Binelli, Cardenas, Rero De Silvestris, Carlo Nicoli. Sotto la guida di Natale, amico di Libero Andreotti, Piergiorgio Balocchi si avvicina ai vecchi operai in cerca di qualcosa di autentico e non pedantesco.
La vitalità del piccolo centro di confine si deve a quel tempo anche a un filo rosso, il filo rosso dell’anarchia, che taglia in due la penisola, e corre da Bocca di Magra fino a Marina di Ravenna. La vita vera dell’arte era proprio lì, a testimoniare, in quei primi Anni Settanta ancora timidi, che la scultura non era affatto morta, anche se il Toninelli, gallerista di tutto il gruppo, quell’anno alla Biennale si intestardì che voleva solo dei bronzi, e tutti sapevano che ciò accadeva per una questione di costi, e non di gusto. La scultura era proprio lì, bella, viva e vegeta, in quel fare, una abilità che coniuga sentire e sapere, esperienza, manualità, disegno, studio del vero, arte di fermare il tempo, a volerlo conservare, congelare.
A tu per tu. La mostra di Balocchi e Taponecco a Carrara
Nelle teche, una raccolta di ritrovamenti, grovigli, oggetti preziosi. Gli 81 autoritratti in miniatura sono stampe su carta dall’aspetto un po’ pittorico, ma sono autoscatti: un fuscello, un giunco, un corpo di donna, l’abbraccio avvolgente di una radura. Perché il destino che qualcuno già le aveva intagliato o ritagliato addosso, a Beatrice Taponnecco non andava bene, ruolo dirigenziale in azienda per le fonti energetiche, obblighi familiari, sociali, amministrativi. E così, due solitudini talvolta si uniscono.
Odi il silenzio della pittura trecentesca senese, i martiniani, i Della Quercia, pronti a rinascere nelle sculture di Balocchi di grandi dimensioni, questa volta per la Corea del Sud, per il Marocco, per la Turchia, per cui alla fine girare per Istanbul è come sentirsi a casa. E quante scaglie, quanti blocchi macinati, in cinquant’anni di esperienze internazionali, nei simposi, in giro per il mondo. E proprio a Marmaros, sulle coste del mare Egeo, si dischiude il segreto mistero del marmo, che brilla alla luce del sole a differenza delle pietre non nobili: marmaròs vuol dire splendido nei dialetti della Grecia Antica. Nel paesaggio, sintesi delle forme, la metafisica, Siena.
Sulla stessa lunghezza d’onda è Taponecco. Per lei le vette delle Apuane sono fonte di una ispirazione inesauribile, come del resto per Balocchi: “E come trovarla altrove se nel senese aprendo la finestra di casa vedo soltanto cipressi: li porto con me nei miei viaggi, librando vita da quel freddo apparente che appartiene al marmo.” Richiamo neanche azzardato all’arte bizantina, cifra di Balocchi è l’albero con la sua ombra, già una meridiana, di nuovo la dimensione del tempo e quella dell’essere in un condensato, attraverso e nel paesaggio.
“A trentacinque-quarant’anni montai a cavallo, a scoprire le meraviglie della nostra Italia fino a San Galgano, fino al mare, una volta addirittura mi spinsi fino a Verona, perché come sapevan bene Goethe o Whitman, immergersi nella natura è quasi una terapia.” Forma di sopravvivenza alla crisi della civiltà, l’arte fa da sentinella ed è di salvaguardia per la salute del pianeta.
Francesca Alix Nicoli
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