Studio Visit. Intervista all’artista Daniele Di Girolamo
Il suono, associato all’atto del ricordare, guida la pratica artistica di Daniele Di Girolamo, che realizza installazioni scultoree da vedere e ascoltare, ispirandosi persino a uno chef. L’abbiamo intervistato
Dare un corpo a fenomeni effimeri e impalpabili: la pioggia che scende, il volo degli insetti attorno a un fiore durante l’impollinazione, il suono trasfigurato di antiche campane. Sono alcune delle tracce passeggere che Daniele Di Girolamo (Pescara, 1995) capta e utilizza per realizzare installazioni in cui la componente scultorea diventa l’ideale prolungamento del suono. È questa la cifra che, più d’ogni altra, sembra caratterizzare la pratica dell’artista: l’audio si propaga attraverso elementi disseminati nello spazio; cilindri rotanti, recipienti, tubi metallici si trasformano in inaspettati amplificatori, come se Di Girolamo immaginasse di attribuire al suono una plasticità. L’opera diventa così la pelle che riveste i fenomeni acustici, trasmettendone una memoria incerta e contribuendo a creare ambienti instabili e sospesi. Il suono, per Di Girolamo, è costantemente associato all’atto di ricordare, con tutte le sue lacune, alterazioni, sfocature.
Intervista a Daniele Di Girolamo
Mi piace pensare alle tue opere come a una vecchia canzone, capace di evocare memorie lontane che, attraverso l’ascolto, tornano a farsi vivide, presenti. Da dove nasce quest’ossessione per la componente sonora?
Ho sempre avuto un interesse per la musica, già da piccolo suonavo diversi strumenti. La parte visiva e quella sonora sono cresciute parallelamente finché, durante gli anni dell’accademia, mi sono sforzato di trovare un modo per unirli nel mio lavoro. Per far questo, ho dovuto prima capire cosa mi interessasse del suono, e ho realizzato che non lo si può considerare separatamente dalla sua componente materiale. Del suono mi piace molto anche l’ambiguità, la sua capacità di suggerire una serie di relazioni in corso, senza imporre un’immagine fissa. È in questo margine di indeterminatezza che entra in gioco la memoria, perché il suono implica l’ascolto, e l’ascolto implica un riverbero: ciò che si ascolta è anche il riverbero che quel materiale ha in noi, in grado di innescare emozioni, associazioni, significati, ricordi.
La parte visiva rimane comunque centrale nella tua ricerca, al di là del suono. Sono curioso di sapere come procedi nella realizzazione delle tue opere: pensi prima alla componente audio o a quella “plastica”?
È molto variabile! Di solito ho una sensazione, un’atmosfera a cui vorrei avvicinarmi. Nelle opere dove uso gli speaker, la parte visiva arriva un attimo dopo il suono e cerca di esserne un corpo di risonanza, una naturale estensione. Il tentativo è quello di raggiungere una specie di inscindibilità tra le due componenti, come l’acqua che reagisce al suono in Sky Above, Sea Below o la plastica che diventa una cassa risonante in Voci discrete di vecchie canzoni. Nei lavori dove il suono è innescato da materiali in movimento, invece, la componente più materiale si evolve di pari passo con i suoni. Per esempio, in Sending a letter for sanding words il tipo di plastica dei tubi rotanti, la loro forma, le dimensioni e la velocità di rotazione influenzano il modo in cui la graniglia si muove e collide, determinando volumi e tonalità. Il materiale all’interno dei tubi, in questo caso la sabbia, ho cercato di esplorarlo sotto l’aspetto acustico, per esempio raccogliendo una grana più spessa invece che sottile. Insomma, è un processo in cui sono le proprietà degli elementi a guidarmi, sia sonore che materiali: l’interazione tra le due definisce l’opera nella sua totalità.
Suono e forma nelle opere di Daniele Di Girolamo
C’è una lunga tradizione di artisti che hanno realizzato opere in cui suono e forma si incontrano, trovando un punto di equilibrio. Il primo che mi viene in mente è Robert Morris con Box with the Sound of Its Own Making (1961): quali sono gli artisti che ti piace guardare e ascoltare?
Zimoun è stato uno di primi a colpirmi, insieme alla serie Disintegration Loops di William Basinski. Poi ci sono le installazioni cinetiche di Rie Nakajima e, uscendo dall’ambito sonoro, mi ha molto influenzato il modo in cui Luca Vanello pensa e “processa” i materiali. Mi piace molto guardare le atmosfere di Ettore Spalletti, la libertà spaziale di Giovanni Anselmo e anche le creazioni dello chef Niko Romito: il modo in cui entra nell’ingrediente e lo stratifica mi fa pensare a un modo di approcciarsi quasi scultoreo.
Nonostante tu non abbia ancora trent’anni, hai già diverse esperienze espositive con le gallerie commerciali. Ho tuttavia l’impressione che la tua pratica non sia così “immediata” per il mercato: che riscontri hanno le tue opere da questo punto di vista?
Posso confermare che la ricezione non è immediata, ma ho notato che i miei lavori un po’ più grandi e complessi aiutano a entrare con facilità nella mia pratica, accompagnando i collezionisti più volentieri verso lavori meno “complicati” da collezionare. È una sfida capire come alcune atmosfere complesse delle mie opere possano essere evocate anche da una singola stampa, penso per esempio a How to be weather. Si tratta di un’operazione di sintesi complicata e stimolante, come se fossi costretto ad andare dritto al punto. Per i lavori più ambientali, invece, mi hanno detto spesso che hanno un respiro museale: sarebbe bello, in futuro, trovare casa ad alcuni di essi!
Qual è la condizione di un artista emergente in Italia, oggi?
Avendo fatto diverse esperienze all’estero, posso dire che in paesi come Svezia o Danimarca c’è un sistema di fondi (tra finanziamenti a progetto, borse di studio, stipendi d’artista e via dicendo) che aiuta tantissimo a poter dedicare più tempo al lavoro d’artista. In Italia ci sono sicuramente meno possibilità sotto il punto di vista finanziario e di servizi (quasi tutti conosciamo purtroppo le condizioni difficili in cui versano le Accademie di belle arti in Italia). Questo porta spesso ad arrangiarsi. Per un artista emergente può essere sicuramente una risorsa preziosa, perché ti porta a scoprire soluzioni incredibili con pochi mezzi. Questa è un’abilità fondamentale, capace di fare la differenza. Ma a quale prezzo? I frutti sono spesso schizofrenici, tra situazioni di grande energia collettiva (penso a gruppi di artisti come SenzaBagno a Pescara o Zolforosso di Venezia, per citare i primi che mi vengono in mente), ma anche guerre tra poveri, dove l’ansia di emergere – anche se nessuno sa poi bene cosa voglia dire – prevale sulla qualità del lavoro, riducendoci a piccoli feudi senza dialogo. Forse, un sistema di base che fornisca più supporto contribuirebbe a un clima più rilassato.
Saverio Verini
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #72
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