I dimenticati dell’arte. Fabrizio Clerici, il creativo visionario
Architetto, pittore e scenografo, Clerici ha attratto e si è circondato di grandi personalità del mondo dell’arte e della letteratura. Animato da una curiosità inesauribile, ha tradotto a teatro il suo coltissimo immaginario
Colto, raffinato, visionario. Con questi tre aggettivi si potrebbe riassumere il carattere di Fabrizio Clerici (Milano, 1913 – Roma, 1993), scenografo e pittore appartato, che ha goduto della stima di molti letterati, primo tra tutti Leonardo Sciascia, e di storici dell’arte di rango come Federico Zeri e Giuliano Briganti. Fabrizio nasce a Milano, ma nel 1920, quando aveva solo sette anni, si trasferisce con la famiglia a Roma, dove si laurea in architettura nel 1937. Nella capitale entra in contatto con l’ambiente intellettuale e artistico, e si lega in particolare ad Alberto Savinio, che lo introduce a una pittura metafisica e surreale, densa di citazioni tratte dall’arte del passato.
Fabrizio Clerici, tra arte, letteratura e scenografia
“Fabrizio del resto è così naturalmente stendhaliano, nell’animo, nel carattere, nel costume, che per una volta mi è consentito credere che la natura ha fatto le cose a dovere”: così lo descrive Savinio in Ascolto il tuo cuore città (1944). Alla fine degli Anni Trenta, Clerici è di nuovo a Milano dove lavora come architetto e illustratore: la sua prima mostra personale è datata 1943, un anno prima di tornare a Roma, dove comincia a frequentare gli artisti surrealisti Leonor Fini e Stanislao Lepri, oltre a personaggi come Alberto Moravia, Elsa Morante, Gaspero del Corso e Irene Brin – proprietari della galleria La Margherita – e l’anglista Mario Praz, il quale presenta la sua prima mostra collettiva alla Margherita nel 1945. Due anni dopo esordisce come scenografo ne La professione della signora Warren di George Bernard Shaw: comincia così una feconda attività nell’ambito del teatro, del balletto e dell’opera, proseguita l’anno seguente con le scene e i costumi per l’Orpheus di Igor Stravinskij, in scena al teatro La Fenice di Venezia, dove aveva incontrato Salvator Dalì alla Biennale nello stesso anno.
La fantasia al servizio dell’arte
Nel 1953 compie una serie di viaggi in Medio Oriente, tra l’Egitto, la Siria, la Giordania, la Libia e la Turchia, che si sono rivelati fondamentali per la formazione del suo immaginario, ricco di simbologie arcaiche legate ad architetture fantastiche immerse nelle sabbie dei deserti. “Fabrizio Clerici è come una spugna che assorbe ciò che vede e ciò che ama e lo mette da parte facendolo suo; la sua memoria – ha scritto Raffaele Carrieri – è impressionante e attinge a un repertorio culturale vastissimo che va dall’antichità classica alla mitologia, dalla storia alla religione, dall’antropologia all’architettura e, naturalmente, alla storia dell’arte“. Al ritorno dai suoi viaggi,
Giorgio Strehler gli commissiona le scene per La vedova scaltra di Carlo Goldoni, seguita da altre occasioni di lavoro importanti come Il sacrificio di Lucrezia di Benjamin Britten con la regia di Alberto Lattuada (1949) e Gianni Schicchi di Giacomo Puccini, con la regia di Peter Ustinov per la Royal Opera House (1962).
Come pittore Clerici ha avuto diversi riconoscimenti, a partire dalla commissione della vetrata con La fede di Santa Caterina, realizzata per la Basilica di San Domenico di Siena (1957); nel 1983 il palazzo dei Diamanti a Ferrara gli ha dedicato un’antologica, presentata da Federico Zeri, e nel 1990 è stata la volta della Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma, che l’anno scorso ha dedicato all’artista la retrospettiva L’atlante del meraviglioso, in occasione dell’acquisizione dell’archivio Fabrizio Clerici. Ora il Mart di Rovereto ha dedicato al rapporto tra Leonor Fini e Fabrizio Clerici la mostra Insomia, curata da Denis Isaia e Giulia Tulino, per puntare i riflettori sul rapporto di amicizia tra la pittrice e “un signore d’altri tempi”, come lo ha definito la sua grande amica Luisa Laureati Briganti.
Ludovico Pratesi
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