A Palazzo Strozzi la più grande mostra italiana del pittore Yan Pei-Ming
I ritratti della grande storia italiana, i punti di riferimento in arte del pittore franco-cinese. A Firenze si celebra la pittura con la mostra “PIttore di Storie”
Nel 1965/66 Roy Lichtenstein, di cui è nota la passione per l’emotività standardizzata del patinato mondo dei fumetti, dedica una serie di stampe serigrafiche ad una delle “forme” più espressive e sfuggenti della storia dell’arte: la forma della pennellata. Brushstroke diventa così un omaggio, distorto ma elegante, ad un gesto che ha segnato il destino di molti artisti, da Giotto a Monet. Per Lichtenstein identifica l’Espressionismo Astratto americano, ma è soprattutto il tentativo estremo di affermare che non è più su quel gesto che si gioca il senso dell’arte del XX secolo. Lichtenstein opera così una imbalsamazione del corpo fisico della pittura, del gesto costruttivo che, sia in Occidente sia in Oriente, prevede la mano a servizio dell’occhio ed entrambi sottomessi all’interiorità dell’artista, in un gioco delle parti in cui proprio la pennellata resta il gesto indecidibile, materico-spirituale, dentro il cui accumularsi si definisce o si perde la rappresentazione, aprendo dimensioni che il Novecento ha esplorato in tutte le direzioni.
Chi è Yan Pei-Ming
Yan Pei-Ming (Shangai, 1960 vive e lavora tra Digione e Parigi) si definisce un “pittore d’assalto” perché ogni sua pennellata è un gesto di lotta, di conquista o di dannazione; la sua pittura è innanzitutto un corpo a corpo fisico, da cui scaturiscono energie difficili da gestire. Questa mostra è fatta di tele monumentali, più l’enigmatica presenza della sua unica scultura, “votiva”, fatta dei resti di colore utilizzati negli ultimi tre decenni. È una mostra che sbalordisce per la sua capacità di riempire lo spazio fisico, ma soprattutto di prevaricare lo spazio mentale del visitatore. Tematicamente, la mostra affronta eventi storici, figure iconiche del potere di ieri e di oggi, rielaborazioni di capolavori della pittura e momenti di vita privata. Tutti tradotti in figure enigmatiche, presenze in bianco e nero, o monocromatiche, costruite con una pittura che assalta l’occhio e il corpo del fruitore con pennellate enormi e agitate. Gestire ciascuna di esse, e ordinarle per ottenere una figurazione tanto rassicurante quanto sconvolgente, appare una sfida titanica che Ming non ha mai smesso di accettare e rilanciare.
La mostra a Palazzo Strozzi a Firenze
La mostra, curata dal direttore Arturo Galansino fa parte del progetto Palazzo Strozzi Future Art sviluppato con la Fondazione Hillary Merkus Recordati. Il percorso ha inizio dal mondo intimo del pittore: una triplice crocifissione (Nom d’un chien!, 2012), lo vede ritratto nei panni del Cristo ma anche dei due ladroni. Il trittico fa pensare, per contro, alle auto crocifissioni di un Martin Kippenberger (la rana) o di un Maurizio Cattelan (La rivoluzione siamo noi), figure celebrate di un’arte che, nel negare la pittura, rifugge il portato tragico dell’esistenza, quel peso che soltanto il pittore moderno, alla cui famiglia Ming appartiene, riesce a cogliere. Come si vede in Ma mère (2018), un primissimo piano della madre che campeggia vicino alla figura di un grande Buddha, uno dei tanti che Ming è solito dipingere fin dall’infanzia per i propri parenti; l’anziana donna è un incontro, il suo sguardo ci chiama ed interroga, sembra portare su di sé il peso dell’esistenza e sembra giudicarci. Viene in mente Rembrandt. Se ti avvicini a pochi metri, quegli occhi magnetici diventano lo sguardo di Dio che incombe su di te. Nella sala successiva, il ritratto del padre morente guarda da lontano l’autoritratto del pittore, in un incontro a distanza significativo. In mezzo, un trittico che omaggia la Monna Lisa presa tra due paesaggi magmatici e neri come la pece. In questa pittura “forsennata” non mancano gesti luminosi, come il dripping che Ming dispone alla destra del padre, facendone una ordinata cascata di luce. Le impressioni di Ming, ingigantite su queste pale d’altare contemporanee, si esprimono con violenza e grazia. Intimismo e lirismo fanno grande questa pittura. Un altro quadro che vale la mostra è nella sezione degli “after” ed è Pape, Innocent X bleu del 2022, in cui il dipinto di Velasquez, poi ripreso da Bacon, viene rielaborato in un blu che ricorda il periodo omonimo di Picasso. Sembra un incrocio di storie dell’arte ma è qualcosa di più: la tela è liscia, come se fosse bastata una sola pennellata a decidere ogni forma. Dal fondo del dipinto traspaiono colori, come braci che ardono sotto. Tutto è movimento e luce, meno lo sguardo fisso del papa, che inchioda il visitatore. E poi Ming lo fa “sanguinare” copiosamente, con un dripping che anche in questo caso sembra seguire una volontà precisa più che la casualità.
Da Mao Zedong ad Aldo Moro
Le sale finali, con l’inedita impiccagione di Mussolini e la morte di Pasolini e Aldo Moro, a rappresentare tre momenti decisivi della nostra storia, raccontano bene come la pittura di Ming, che parte da fotografie d’epoca, sia capace di restituire un’aura, una vitalità coinvolgente ad eventi e a personaggi. Lo si vede bene nei ritratti in rosso di Mao Zedong e di Bruce Lee, due figure chiave per il giovane Ming cresciuto all’ombra del primo e nel mito del secondo. Sono allestiti uno a fianco all’altro, a formare un dittico conturbante. “La storia ha un ruolo fondamentale nel mio lavoro”, sostiene l’artista, “anche perché è governata dal conflitto tra la vita e la morte, vale a dire l’idea della fine della condizione umana. Penso sia proprio questa lotta perpetua a commuoverci”. Idee e dipinti, quelli di Ming, che Jean-Paul Sartre avrebbe apprezzato.
Intervista ad Arturo Galansino
Si è formato in storia dell’arte in Italia poi ha lavorato come curatore presso il Louvre di Parigi, la National Gallery e la Royal Academy di Londra. Dal 2015 Arturo Galansino dirige Palazzo Strozzi, fondazione che sta cambiando il volto culturale ed artistico di Firenze. L’ultima monografica di Yan Pei-Ming nasce da una urgenza: rimettere al centro della nostra attenzione il connubio tra la grande pittura e la Storia con la esse maiuscola. Ne abbiamo parlato con lui.
Questa mostra sembra una rivincita della pittura. Yan Pei-Ming ne ha fatto un mezzo espressivo alto, una pratica creativa radicale capace di restituire un senso di presagio.
È vero, la pittura si è data per morta tante volte ma è tornata sempre e Yan Pei-Ming in questo senso è un veterano. Giunge in Europa proprio quando della pittura figurativa non se ne voleva sapere più molto, ma lui con grande coerenza non l’ha mai abbandonata.
Dipende in parte dal fatto che fosse cinese e quindi fuori dalle tendenze occidentali?
“Appena uno segue la moda è già passata di moda”, dice. La pittura è il suo mezzo già da quando era in Cina, in un’epoca in cui per gli artisti la vita non era facile. Sotto Mao l’arte, in quanto espressione dell’individualità, non era ben vista ed essere artista voleva dire dipingere la sua effigie all’infinito. Ming lo dipinge continuamente, usando l’appropriazione della sua immagine come esperienza concettuale. “Quando voglio sperimentare qualcosa di nuovo dipingo Mao”, dice. E’ uno dei suoi temi di riferimento.
A differenza di Ai Weiwei però non è un artista dissidente.
Non si considera tale, non si ritiene neanche un artista cinese.
La Storia lo affascina, i temi italiani da lui scelti per questa mostra sono notevoli.
Abbiamo dialogato molto su ciò, Ming non è un esperto di storia italiana ma ha colto momenti che hanno cambiato la nostra nazione. L’incontro tra pittura e storia m’interessa molto e Ming riflette le tinte fosche di un presente alle prese con il ritorno della guerra.
Passiamo ai vostri numeri: avete un bilancio di circa 10 milioni l’anno e una ricaduta economica su Firenze in media di circa 60 milioni.
Sì, un bilancio in gran parte privato e generato dai nostri successi e nel 2022 si è toccato l’impatto record di 112 milioni. La nostra specificità è quella di attrarre in città un turismo di qualità, che viene a Firenze apposta per noi. Organizziamo le mostre più visitate d’Italia, toccando i 350.000 visitatori annui; son pochi rispetto agli Uffizi, ma il nostro turismo di qualità produce ricadute ottimali.
Anche sull’arte antica dite la vostra, con mostre uniche su Donatello e il Verrocchio.
Firenze non ha bisogno di buone mostre d’arte antica e neppure di ottime: merita soltanto mostre irripetibili. Lavorare insieme ai grandi musei internazionali ci ha permesso di farle. E da storico dell’arte ne sono orgoglioso perché sono state mostre fondamentali per la ricerca e hanno avuto ricadute positive anche sul patrimonio, promuovendo restauri importanti.
Com’è cambiata Firenze da quando lei è a Palazzo Strozzi?
A parte la preoccupante crescita del turismo di massa, Firenze è cambiata in modo visibile, grazie ad un grande fervore verso il contemporaneo. Palazzo Strozzi è stato l’alfiere di questa rivoluzione, prima impensabile. Quando arrivai e dichiarai di voler portare le mostre di arte contemporanea più ambiziose mi presero per pazzo… ma i risultati ci hanno dato ragione.
Nicola Davide Angerame
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