Nella solitudine non ci può essere critica d’arte
Non è vero che la critica d’arte è morta. È viva e vegeta, ma non riesce a fare rete o a conquistare una dimensione collettiva. E può imparare molto dagli artisti
Nelle scorse settimane un interessante dibattito sulla critica d’arte e la sua presunta assenza o disimpegno è partito sulle pagine del Domenicale del Sole 24 Ore, comprendendo l’intervento di Gian Maria Tosatti (3 settembre 2023) e le risposte di Michele Dantini e Christian Caliandro (17 settembre 2023), così come una serie di commenti sulle piattaforme Facebook, Instagram e WhatsApp. Sorvolerò per non peccare di autocelebrazione o auto assolvimento sulla questione delle riviste specializzate, che nell’articolo di Dantini peccherebbero rispetto al passato di incapacità di incidere sulla storia recente, essendo diventate, a suo parere, meri strumenti di diffusione di comunicati stampa copia-incollati e di interviste, poco rischiose e di facile digestione.
Critica d’arte, curatela, stampa di settore
Mi interessa molto, sempre nel pezzo di Michele Dantini, invece, il passaggio in cui evoca la necessità di una dimensione collettiva nella critica, immagino agognando scenari in cui il dibattito era presente, vivo, quotidiano ed occupava oltre che la vituperata stampa di settore anche le pagine dei quotidiani nazionali. Basta recarsi in una biblioteca e fare un po’ di ricerca per trovare i botta e risposta tra Francesco Arcangeli, Cesare Brandi e più avanti i commenti di Germano Celant, Achille Bonito Oliva (per citarne alcuni) per rendersi conto che l’arte fino agli Anni ’80 occupava un posto molto più ampio di oggi nelle cronache. È errato dire che oggi l’arte contemporanea sia sparita dalla stampa generalista, ma sicuramente è stata (o si è) sottratta alla dimensione del pensiero (e anche dell’attualità), per conquistare quella del fenomeno glamour, rendendo pertanto sempre più difficile leggere nei luoghi dedicati ad una opinione pubblica non specializzata dibattiti come quello lanciato dal Sole 24 Ore. Come sia avvenuto questo passaggio, questa trasformazione, ha un po’ a che vedere con la questione dell’uovo e la gallina: è al pubblico che non interessa più l’arte del suo presente, o è l’arte che non sa conquistare più il pubblico? E ancora sono i critici che hanno abbandonato, salvo alcuni resistenti, la dimensione teorica del pensiero per fare i curatori o sono i curatori che con il loro ruolo più fattivo hanno abbandonato la scrittura?
La critica d’arte nei libri dei critici
I problemi sopra citati hanno risvolti anche pratici: la diminuzione delle pagine dedicate alla cultura, nelle quali l’arte ha sempre un peso minore rispetto ad altri settori e industrie più potenti, come cinema, moda, design e letteratura, la precarietà di un sistema economico che richiede agli operatori del settore di ricoprire più ruoli con una conseguente diminuzione della libertà di pensiero, e così via. Ma si tratta solo di questo? In occasione della pandemia da Covid-19 e del primo lockdown è diventato evidente quanto l’arte sia venuta meno al suo ruolo pubblico e alla sua capacità di incidere sul presente, pur offrendone invece delle straordinarie chiavi di interpretazione. Eppure, come evidenzia anche Caliandro nella sua risposta, mai come in questi ultimi anni post Covid sono usciti libri interessanti e importanti (da Stefano Chiodi a Teresa Macrì, da Lisa Parola a Serena Carbone, da Saverio Verini a Marco Enrico Giacomelli, fino a Luca Beatrice, con il suo libro di recente pubblicazione, per citarne alcuni) che hanno attraversato (e lo stanno ancora facendo) con precisione e competenza diversi e rilevanti aspetti del discorso artistico. Anzi, si può proprio dire che se c’è qualcosa di buono che ne è venuto fuori è stato proprio un ritorno alla scrittura e alla riflessione. Tutto bene, dunque? Pare di no. Intanto perché – leggo dai social – c’è ancora qualche operatore che ritiene che la dimensione della scrittura del pensiero non producano valore e che, probabilmente, quindi, vadano avversate e ridicolizzate. Poi c’è il problema della solitudine. Per fare massa critica bisogna fare massa critica. Stare insieme, che non significa andare d’accordo, ma discutere e riconoscersi.
Il tema del riconoscimento
Sembriamo o rischiamo di sembrare invece sempre più ridotti a questo piazzismo solipsista ed egoriferito a mezzo social nel quale presentiamo sulle nostre pagine il nostro prodotto, avversari e disuniti per conquistare la tribuna dei like. Nel recensire l’interessante libro di Luca Beatrice Le vite. Un racconto provinciale dell’arte italiana di Marsilio, Il Foglio, con un articolo di Camillo Langone titolava il 16 settembre Luca Beatrice, ultimo critico d’arte (cioè non curatore). A parte che questo non è vero (né che il recensito non sia stato un curatore, come dimostra la sua carriera, né che sia l’ultimo), ma questa definizione che esclude tutti gli altri quanto bene fa al settore o allo stesso Beatrice? A mio parere molto poco, si sta bene laddove c’è ricchezza, scambio, confronto e scontro, per creare una “presenza” talmente solida da diventare palpabile e necessaria anche fuori dalle mura del settore. Per fare questo bisogna riconoscere l’altro, cosa che mi sembra sempre più difficile in un mondo in cui l’autoaffermazione e celebrazione, la demolizione con il linguaggio bipolare dei social media (il non ti leggo nemmeno, ma so ben io come si fa!) o addirittura l’ignorare, senza che ci sia quasi mai un ad onor del vero, una generosità, il lavoro che altri stanno svolgendo – a meno che non facciano parte del proprio giardino relazionale o territoriale – in una prosopopea mi si perdoni soprattutto maschile, sono sempre più frequenti, scatenando in altri senso di solitudine o volontà di ritrarsi.
I gruppi di artisti
In questo gli artisti hanno fatto meglio, con esperienze non sempre di successo (talvolta anzi totalmente fallimentari) e non necessariamente progettuali, ma autonome, indipendenti e solo di scambio e di confronto che hanno attraversato, non sempre raccontate, gli ultimi decenni. In questo Luigi Presicce è senz’altro un apripista con Lu Cafausu, Brown e la più recente Scuola di Santa Rosa, ma ci sono state, tra le altre, anche Cosmologia, cui ha dato avvio negli anni ’10 lo stesso Gian Maria Tosatti (e alla quale alcune sezioni del progetto per la Quadriennale mi sembrano essere debitrici), il gruppo The Glorious Mother e la corrispondenza di amorosi sensi delle artiste di Pensiero Stupendo (Elena Bellantoni, Luana Perilli, Lucia Veronesi, Roxy in the Box, Laura Cionci, tra le molte altre). Questi ultimi due mi sembrano, insieme alla Scuola di Santa Rosa, tra gli esempi recenti più belli di desiderio di stare insieme, di parlarsi, di ritrovarsi, di mettere a sistema problematiche comuni e capire come risolverle, al di là di una conseguenza specifica che sia espositiva, economica, oggettuale e progettuale. Ipotesi di una reale dimensione collettiva. La critica riesce ad imparare dagli artisti?
Santa Nastro
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