L’arte oltre la contemplazione. Sulla dimensione relazionale nel contemporaneo
Perché i selfie nei musei o il rogo della Venere degli Stracci di Pistoletto sono il rovesciamento di un’esperienza estetica più inclusiva. Che il pubblico chiede a gran voce
“L’arte ci offre l’unica possibilità di autentico contatto umano e così l’unica possibilità di amore non solipsistico”. Scrive così Martha Nussbaum nella sua Intelligenza delle Emozioni. Perché le emozioni ci agiscono, ci abitano, svelano, aggregano. Le ricerchiamo in un mondo complesso, iper-articolato e in tensione, mentre incediamo spediti tra metropoli affollate, su marciapiedi dove si scontrano “anime nude e solitarie”, pulviscolo di una moltitudine singolare. Un’interazione irreale, breve, subitanea, già oltre.
Siamo spettatori distratti in cerca di epifanie. Lo siamo anche nei musei, dove si notano visitatori sempre più avidi. Si va di fretta, si ricercano capolavori come un must have da fotografare e tenere sul cellullare. È un’appropriazione indebita? O è invece qui, in questo gesto di partecipazione e interazione, che l’arte risvela il proprio ruolo sociale quasi arcaico?
Leandro Erlich a Palazzo Reale
Che qualcosa sia cambiato è sotto gli occhi di tutti. Si può contare in quello spazio che, ad esempio, si frappone dalla mera contemplazione delle opere ai selfie che immortalano i visitatori di Palazzo Reale a Milano sulle balaustre rovesciate del Bâtiment di Leandro Erlich. Ma, nell’intricato rapporto tra l’artista, l’opera e il suo fruitore, in questo triangolo d’amore, di artifici e Pigmalioni, cos’è che sta davvero mutando? Nel contemporaneo passaggio dal corpo esibito all’esposizione del corpo ci sembra che non basti più il caro e vecchio espediente dello specchio, veicolo di quella portentosa categoria della somiglianza che ci fa esclamare, forse anche con un velo di rassegnazione, “l’arte ci somiglia”.
Di effetto riflesso parla Clement Greenberg come lo sforzo da parte del fruitore di dare alla visione un assetto compiuto e narrativo al fine di ricomporre le qualità plastiche dell’opera e, quindi, di dar forma ai segni del dipinto. Come sottolinea lo studioso: “Nell’Arte vogliamo riconoscere e vedere quanto di noi stessi veramente ci appartiene”. Ma cosa, nell’arte, possiamo considerare “nostro”?
I quadri specchianti di Michelangelo Pistoletto
Quando Michelangelo Pistoletto metteva in scena, ormai nel 2009, alla Biennale di Venezia la performance Twenty-two less two, durante la quale distruggeva i suoi Quadri Specchianti (davanti a spettatori specchiati) l’artista spiegava che nell’atto di “spaccare” l’opera introduceva in essa un elemento: il nero che sta dietro. “Essa ha assunto istantaneamente una forma fissa che ha la stessa valenza della fotografia. L’opera documenta un atto che è stato presente e rimane memoria: una fotografia gestuale” (Lo storico del presente, in “Art app”, n.3, Bergamo 2010). Riverberano le parole di Lucio Fontana, che nel Primo Manifesto dello Spazialismo nel 1947 scriveva: “L’Arte è eterna, ma non può essere immortale. Rimarrà eterna come gesto, ma morrà come materia”. Ma il “gesto” riguarda solo l’artista?
Il contagio mimetico secondo René Girard
Nell’esperienza estetica condivisa il corpo dello spettatore, “enorme macchina per imitare”, diviene perfetta espressione della dimensione di relazione e intersoggettività, nonché del désir mimétique di cui parla René Girard. L’ipotesi dello studioso francese, formulata in Menzogna romantica e verità romanzesca nasce dall’analisi di classici come il Don Chisciotte o il Rosso e Il Nero. Il desiderio che muove il soggetto verso l’oggetto non nasce, secondo Girard, dalla pura cosalità di quell’oggetto, ma perché questo è desiderato dall’Altro. In tal senso, contro l’individualismo dirompente, il “contagio mimetico” reso possibile dalla fruizione artistica può aprire orizzonti vasti. È lo spettatore, in un’epoca poco tangibile, ad essere chiamato a partecipare all’esperienza estetica attraverso la memoria dei gesti. Il fruitore si appropria delle formule del pathos, nella loro accezione di espressioni ritualizzate delle emozioni. Lo fa quasi inconsapevolmente, quando tra le opere si fotografa, quando partecipa a mostre ingaggianti o a performance di arte collettiva.
L’incendio alla Venere degli Stracci a Napoli
Anche quando la nuova esigenza passa per la distruzione feroce e forsennata della Venere degli Stracci di Pistoletto, avvenuta a Napoli per mano di un clochard, l’arte ritrova (in questo caso in modo distorto e perfettamente rovesciato) la primordiale categoria della partecipazione. Si fa veicolo di un rinnovato bisogno di partecipazione civile anche quanto assistiamo “all’autocombustione del lato peggiore dell’umanità”. Ma da dove nasce questo bisogno e perché proprio l’arte dovrebbe veicolarlo? Tra le parole e le cose, è l’immagine che prende il sopravvento. Gran parte del vedere è frutto di convenzione e dipende dall’abitudine. Tutti i dipinti della tradizione occidentale, ad esempio, usavano la convenzione della prospettiva, la quale centra tutto sull’occhio di chi guarda. Come spiega bene John Berger, la prospettiva è simile al raggio di un faro, con la differenza sostanziale che non è tanto la luce a viaggiare verso l’esterno, quanto le apparenze a viaggiare all’interno. Apparenze che non esitiamo a chiamare realtà.
Lo spavento della Medusa secondo Jean Clair
La prospettiva fa quindi dell’occhio il centro del mondo visibile. Ne deriva che l’uomo, potendo essere solo in un posto alla volta, porta con sé il suo mondo visibile mentre cammina. Una percezione che cambia radicalmente con l’avvento di quello che Dziga Vertov descrive nel perturbante Uomo con la macchina da presa: “Io sono il cineocchio, io sono l’occhio meccanico. Io mi libero, da oggi e per sempre, dall’immobilità umana”. L’occhio umano non ha però la stessa potenzialità visiva dell’uomo della macchina da presa di Vertov, perché, per dirla con Jean Clair, cadrebbe nello spavento di Medusa, nella paralisi davanti a un mondo indecifrabile. Non cadere nel senza fondo delle voragini dello sguardo meduseo significa anche applicare un discrimine, che si sposta per abitare entro i cambiamenti epocali che l’arte introietta, addomestica, riconsegna nella forma pacificata dell’opera. In tal senso, il rifiuto dell’immobilità nella fruizione artistica è rifiuto della mera contemplazione. Lo spettatore nell’era digitale, nell’era della complessità, necessità di una fruizione “incarnata”, fisica, che deve sapersi reggere anche sulla partecipazione attiva dell’Altro, entro la quale il gesto assume nuovo significato. Oltre allo specchio, oltre alla contemplazione, l’approdo pare piuttosto quello della creatività contemplativa. Qui si inscrive una grande sfida dell’arte (e della museologia): prendersi cura di questa spinta propulsiva, accogliere il grido della dematerializzazione per ospitare non visitatori, ma costruttori attivi di senso.
Musei e spettatori: i dati
Occorre ancora una riflessione. Includere lo spettatore all’interno dell’esperienza estetica non può prescindere dall’inclusione e dalla partecipazione identitaria di tutti. Dall’ultimo report Istat sull’accessibilità ai luoghi della cultura emerge che, se due su tre sono le istituzioni attrezzate per accogliere persone con disabilità motoria, sono ancora troppo minoritarie quelle che garantiscono la fruizione ai visitatori con disabilità fisica di tipo cognitivo, visivo e uditivo.
Meno della metà dei musei, ad esempio, mette a disposizione supporti per chi ha difficoltà nella lettura, solo il 7,7% presenta mappe tattili orientative e solo il 9,5% carte con disegni a rilievo podotattili per consentire la visita a persone non vedenti e ipovedenti. Solo il 10% inoltre mette a disposizione un assistente che accompagni durante la visita le persone con disabilità visive, cognitive e di comunicazione.
Fuori dai musei, occorre uno sforzo ancora maggiore. L’arte pubblica necessita di riavvolgersi su quel doppio nastro che Vincenzo Trione definisce “l’arte per il pubblico e l’arte per la polis”.
Arte, spazio pubblico e relazione
In una riflessione di Michele Cerruti But contenuta in “Arte e Spazio pubblico” si pone l’accento proprio sulla dimensione ‘relazionale’ e di ‘tensione’ dello spazio pubblico.
“Se lo spazio pubblico è definito da relazioni più o meno aggregative di “pubblici”, in che modo l’arte può relazionarvisi, e con chi?” si domanda lo studioso. La risposta non può essere univoca: “Rispetto all’ingaggio va osservato come le pratiche artistiche nello spazio pubblico non siano affatto per tutti. Si ingaggiano con qualcuno, per qualcuno, e assumono nella contemporaneità una forma estremamente parziale e limitata. È la consapevolezza di questa impossibilità dell’arrivare a tutti che potrebbe riconsiderare tali pratiche come un dispositivo più che un monumento, come plurali anziché singolari, come molteplici anziché assolute”.
L’arte come eminente dispositivo relazionale non è certa una prospettiva nuova, ma sono nuove le sfide che questa contemporaneità evoca. Tra la molteplicità identitaria, il pluralismo di pubblici e voci, l’esperienza estetica deve farsi evento aggregante, epifania sperata. Parlare a chi e per chi, come il fautore del rogo della Venere, vive ai margini di un mondo che ci fagocita. Farsi innesco.
Jessica Muller Castagliuolo
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