Cos’è il contemporaneo? Sergio Limonta e Alessandro Di Giampietro a Milano
Due mostre a Casa degli Artisti riflettono sui rapporti tra società e individuo, tra artigianale e industriale. Abbiamo chiesto agli artisti di raccontarcele
Due diverse elaborazioni del contemporaneo quelle di Alessandro Di Giampietro e Sergio Limonta, entrambi classe 1972, i quali inaugurano la stagione espositiva autunnale di Casa degli Artisti a Milano. Se le grandi e variopinte vele cucite da Di Giampietro occupano il piano terra, le installazioni di Limonta trovano spazio negli ambienti del piano superiore, che sono stati anche lo studio dell’artista durante la realizzazione del progetto, in quanto vincitore della prima edizione del bando STUDIO PRODUZIONE (organizzato da PROGETTO LUDOVICO, Non Riservato, THAT’S CONTEMPORARY, e Casa degli Artisti). Due mostre che indagano la contemporaneità attraverso le dicotomie di universale e individuale, industriale e artigianale, che trovano risoluzione nelle pratiche di comunione e connessione all’altro. Abbiamo chiesto agli artisti di raccontarci la genesi di queste opere.
Intervista ad Alessandro Di Giampietro
Il tuo progetto site specific per Casa degli Artisti è il risultato di una residenza presso l’istituzione milanese. Raccontaci di più.
L’invito a presentare un progetto site-specific arrivò da Lorenzo Vatalaro, direttore dell’omonima Galleria e uno dei soci fondatori di Casa degli Artisti, nel settembre 2021, dopo aver visto un progetto che avevo esposto in quel periodo alla galleria CABANAmad di Lisbona.
All’epoca non vivevo più in Italia: lasciai Milano nel 2016 per Lubiana, dove in quattro anni di permanenza mi sono confrontato con una cultura molto diversa da quella italiana, cercando di creare una frizione fra le due, facendole convivere.
Ottimi risultati, direi. Quell’esperienza, soprattutto di vita, non mi ha lasciato indifferente. Tornando al progetto, a fine pandemia avevo una necessità impellente di fermarmi in tutti i sensi, di tornare al sé, all’io più autentico e profondo.
Importante e chiarificatore è stato il confronto con Lorenzo Vatalaro e con Rita Selvaggio, critica e storica dell’arte. Quest’ultima poi autrice del testo critico che accompagna la mostra.
Il titolo – The Nowness of the Everyday – fa direttamente riferimento al tema della contemporaneità: che rapporto si instaura, oggi, tra individuo e società dal tuo punto di vista?
The Nowness of the Everyday è l’opera che al momento sento necessaria; il rallentare, il prendersi del tempo, la ripetizione del gesto nella pratica del ricucire, mi porta in uno stato meditativo dell’io nella società e viceversa. Le Rivelate (il nome delle singole opere in mostra) rappresentano il filtro dove luce, colore e agenti atmosferici armonizzano tra il dentro e il fuori, tra la società e ciò che sono.
Riassumerei con un aforisma che ho recentemente inserito in una mia opera pubblicata con l’editore Alberto Casiraghi (Pulcinoelefante Editore): Infinite suture per tornare all’uno.
Hai cucito personalmente le tende che compongono The Nowness of the Everyday: quale importanza dai all’attività manuale nella produzione artistica?
La manualità del fare è fondamentale nel mio processo creativo, per poi lasciarlo andare, perdendosi. In questo caso specifico il cucire, quindi la ripetizione all’infinito del gesto, ha una valenza meditativa, dove la riflessione in atto si fa profonda e scivolosa.
In che modo la tua installazione dialoga con gli spazi di Casa degli Artisti?
Abbracciandola.
Portando il dentro fuori e il fuori dentro.
Rendendo l’invisibile visibile, l’impalpabile palpabile.
Abbraccia il fruitore rendendolo partecipe e consapevole dell’esperienza di meraviglia.
Intervista a Sergio Limonta
Le tue opere sono realizzate con materiali industriali: da cosa nasce questo tuo interesse?
Quando uso il termine “industriale” non mi riferisco ai materiali, ma a un atteggiamento. Al di fuori dell’ambito del fare, che mi riguarda in quanto scultore, parlerei di mistica. La mistica è considerata la condizione più alta alla quale un umano può assurgere. Se ci si fa caso si persegue per assenza, non per accumulo. Portare l’essere alla chiarezza.
Questa chiarezza la perseguo anche nella composizione delle mie opere. E la ritrovo a volte nel prodotto dell’industria, nella sua onesta funzionalità. Dove quel che c’è è sempre e solo lo stretto necessario. Tutto ciò che ha ragion d’essere è sempre armonico.
Quali sono i tuoi riferimenti artistici e culturali?
Per cominciare non mi interessa la narrazione che parte dai think-tanks internazionali e che distorce la realtà sostituendo il mondo dell’esperienza e degli atti con quello del racconto. E tutta la spazzatura pseudo-intellettuale e ideologica che ne deriva e che sta infettando il mondo dell’arte e non solo. Dietro il riconoscimento delle diversità, essa frantuma la collettività in micro gruppi in conflitto tra loro; la priva di una storia comune con le sue luci e le sue ombre. Divide et impera.
Dunque il mio riferimento restano l’azione e l’esperienza, nell’arte e nella vita.
Credi che gli oggetti quotidiani e industriali abbiano un ruolo nella definizione dell’estetica contemporanea?
Mah, c’è Kounellis, c’è Steinbach… L’elenco è infinito. Non serve che lo puntualizzi anch’io. Se credi però confermo.
Piuttosto vorrei far notare che il ready made non lo ha inventato Duchamp. Nelle arti esistono da sempre due atteggiamenti principali: l’invenzione di sana pianta (il Giudizio Universale di Michelangelo, la Madonna Rucellai di Duccio di Buoninsegna) e la ripresa dalla realtà di un soggetto/oggetto che già di suo incarna la meraviglia che l’artista va cercando (dalla canestra di frutta ai brutali carpentieri che inchiodano San Pietro alla croce in Caravaggio, alle vedute di Canaletto come in Turner). Per me i covoni di Monet han sempre fatto il pari con i feltri di Beuys o con gli igloo di Merz.
La vera novità nel Novecento è stata l’uscita dal quadro. E gli oggetti/soggetti non hanno più avuto bisogno di esser dipinti.
Parlaci della tua residenza presso Casa degli Artisti e di come ha influenzato la produzione delle opere in mostra.
La residenza vera e propria è durata un paio di settimane; parlerei piuttosto di progetto, che ha avuto inizio fin dall’uscita del bando che fortunatamente ho sentito cucito su di me. Nella prima fase ho presentato il progetto di un’unica installazione che traversava lo spazio interno dello studio e quello esterno. Durante gli studio visit ai finalisti sono nate nuove esigenze nel confronto con i membri della commissione e, di conseguenza, un progetto più articolato. Infine, malgrado idee e materiali già pronti, la permanenza nello spazio dello studio per circa due settimane ha portato alla produzione di un’ulteriore opera e la definizione formale della mostra che, da sempre, considero come un’opera di opere, più o meno come l’album per un musicista.
Geometrie essenziali, traversabilità degli ingombri con lo sguardo, luce e luci, texture dei materiali e disposizioni spaziali definiscono il risultato.
Alberto Villa
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