Intervista all’artista Anouk Chambaz su natura, scenari urbani e femminismo
L’ultima produzione dell’artista vede un gruppo di sette donne incarnare altrettante figure chiave del femminismo come Angela Davis e Carla Lonzi, colte nell’atto di ridere. Le abbiamo chiesto perché
Hanno qualcosa di ipnotico, le opere di Anouk Chambaz. Che si tratti di video lunghi o di breve durata, l’artista riesce a penetrare lo sguardo dell’osservatore, ad attrarlo verso di sé con primi piani intensi sui volti delle persone, oppure con campi larghi che lasciano parlare il paesaggio. La purezza quasi naïf di alcune produzioni riesce a risultare sempre credibile, grazie al sofisticato istinto delle soluzioni registiche e alla capacità di presentare l’opera nello spazio. La presenza della camera da presa è spesso percepibile, quasi si trattasse di un oggetto dal “peso” scultoreo. L’apparente diversità dei suoi video testimonia la libertà di una ricerca in continua evoluzione, costantemente alimentata da uno sguardo carico di stupore.
Chi è Anouk Chambaz
L’artista è nata a Losanna, in Svizzera, nel 1993. Laureata in cinema e in filosofia a Losanna e Roma, si specializza con un master in immagini in movimento a Venezia. Nel 2022 ha partecipato al programma di residenze Prender-si cura al Mattatoio, a Roma, ed è stata finalista di ArteVisione LAB, promosso da Careof, a Milano. Nello stesso anno è vincitrice della sezione video del premio Combat.
Trovo che in alcune delle tue opere tenda a sottolineare la “materialità” del video e dei dispositivi che ruotano attorno a esso. Mi ha molto colpito, per esempio, un lavoro in cui – con un carrello per le riprese – giri incessantemente attorno a una strada della periferia di Palermo, una specie di anello, catturando tutto ciò che accade: il passaggio di persone e automobili, voci, le attività quotidiane di quel luogo. L’ho trovato un lavoro molto fisico e performativo, nel suo mettere in evidenza un semplice “strumento” come il carrello per le riprese, la cui presenza e il cui movimento mi sembrano alla base dell’opera.
Ho studiato regia alla scuola di cinema, gli strumenti della cinematografia mi sono molto cari. È il mio linguaggio, la mia grammatica. È da qua che sono nati film di solo primi piani come Le Sentinelle, o altri (ad esempio Marica) in cui utilizzo una lente molto particolare come la probe lens. Il lavoro che hai citato, Danisinni!, è una collaborazione con Filippo Foscarini. A due passi del centro di Palermo, i Danisinni è un quartiere costruito interamente intorno a una scuola abbandonata, un anello dove vivono insieme persone, cavalli, galline. Non ci sono vie di uscite, puoi solo girarci in tondo. Ci è sembrato naturale seguire la geografia del luogo, sentimentale e fisica, producendo delle carrellate all’indietro. È un film-dipinto, come Cézanne che ha prodotto decine di quadri della montagna Sainte-Victoire. Noi abbiamo ripreso i Danisinni all’alba, al crepuscolo, a mezzogiorno. Piano piano gli abitanti si sono abituati a noi. Ci hanno soprannominato “i pazzi”: come mai due persone girano così? All’inizio pensavano che fossimo la polizia. Poi uno di loro ha riassunto il nostro lavoro nel miglior modo possibile: “È come una mela che sbucciate piano piano, per arrivare al nocciolo”. Danisinni! è un lavoro ancora incompiuto, e spero che presto lo concluderemo. Ci sono molto affezionata.
La tua ultima produzione, Mon rire est cascade, vede un gruppo di sette donne incarnare altrettante figure chiave del femminismo come Angela Davis e Carla Lonzi, colte nell’atto di ridere. Trovo sia un’opera capace di unire densità e leggerezza; un’opera politica, ma in modo quasi scanzonato.
Mon rire est cascade nasce da una conversazione con l’artista Giulia Mangoni, con cui mi confronto e collaboro spesso. È un’opera pensata per la Biennale di Gubbio, che inaugurerà il 15 ottobre. Ludovico Pratesi e Marco Bassan, i curatori, mi hanno chiesto di lavorare negli appartamenti delle donne di Palazzo Ducale. Queste stanze sono ricoperte di quadri che raffigurano uomini illustri, così ho risposto proponendo un video di donne che ridono. La risata delle donne, spesso ridotta a battibecchi e chiacchiere, qui si fa scambio interpersonale, conoscenza condivisa, coscienza di gruppo. Nel video ci sono sette attiviste, di cui tre hanno fondato l’associazione romana Donne X Strada: rappresentano sette femministe storiche degli Anni Settanta, la cui eredità è essenziale. Volevo fare un’opera inclusiva, irreverente, giocosa: la risata è contagiosa, coinvolge il corpo della spettatrice. È liberatoria.
Una cosa che mi incuriosisce della tua pratica è il passaggio disinvolto da contesti naturali a scenari urbani, così come l’attenzione che rivolgi, allo stesso modo, a tutte le forme di vita, umane, animali, vegetali. Qual è il trait d’union della tua ricerca?
Forse sono attratta dalle figure dell’alterità: la donna, il bambino, la periferia, la natura. Un mio lavoro audio si intitola Istabsir – un’attitudine di contemplazione attiva. Forse è questo atteggiamento il comune denominatore di tutti i miei lavori.
I tuoi progetti sono sempre piuttosto ambiziosi, nelle modalità di realizzazione, così come nel tempo che dedichi alla ricerca teorica che ne sta alla base. Quali sono le difficoltà – o magari gli aspetti positivi – che tempi di lavorazione così lunghi richiedono?
Dopo aver lasciato la scuola di cinema, mi sono confrontata con la mancanza di strumenti teorici, la difficoltà di organizzare un pensiero. Così ho studiato filosofia per tre anni. Estetica, biologia, antropologia, filosofia del linguaggio: Levinas, Bateson, Wittgenstein, Haraway, Beauvoir, costituiscono ora le fondamenta del mio lavoro artistico. Posso realizzare opere in apparenza molto semplici, ma che cercano di reggersi su fondamenta teoriche che ritengo salde. Per quanto riguarda l’aspetto tecnico, ho diverse esigenze, che però non affronto mai da sola. Sono abbastanza fortunata nell’avere collaboratori di cui mi fido completamente, tra cui la direttrice della fotografia Saskia Scorselo, che mi ha accompagnato nei progetti di questi ultimi tre anni.
Sei nata in Svizzera, dove ti sei formata, ma vivi da diversi anni tra Roma e Venezia. Che idea ti sei fatta della scena artistica italiana?
L’Italia è il paese che mi ha accolta in quanto artista, che mi ha permesso di definirmi tale. In particolare, devo molto alla mia permanenza negli spazi di Castro Projects, a Roma, un’iniziativa di Gaia Di Lorenzo. Roma mi ha dato questo: un senso di comunità, di casa, dei compagni di viaggio. Sì, va detto, è ovvio: la situazione economica è un disastro. Però ci sono delle persone, che ho imparato a conoscere, che dimostrano una generosità, un’ingegnosità e una sensibilità eccezionali. Forse, venendo da un paese considerato freddo, questo calore umano rappresenta per me una melodia che rende la vita più lieve.
A cosa stai lavorando in questo momento?
Sto lavorando sulle azioni irriverenti, rivoluzionarie e solidali delle donne, collegando figure storiche a questioni contemporanee. Parallelamente, sto preparando diverse mostre, tra cui la Biennale di Gubbio e il progetto Mind the Gap, curato da Lorenzo Lazzari e Giada Centazzo a Udine. A inizio 2024 parteciperò alla Biennale Minus20degree, dove sperimenterò con delle proiezioni sulla neve; nello stesso periodo inaugurerà la mia prima mostra in galleria, da Eugenia Delfini a Roma. Per quell’occasione ho il desiderio di creare anche degli oggetti fisici. Sto decisamente uscendo dalla mia zona di comfort, e questo mi entusiasma molto!
Saverio Verini
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #74
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