La lingua della sopravvivenza. Cos’è successo al festival culturale di Lipari
Per una settimana l’isola di Lipari si è trasformata in approdo cosmopolita per accogliere artisti impegnati a raccontare le ingiustizie del nostro tempo, tra poetica e politica
Incanto è una parola ambivalente quando è impiegata in un qualsiasi discorso concernente la letteratura, il teatro, il video, in quanto tropo inclusivo di tutta la complessità che il linguaggio può offrire. È una parola liminare, guarda il reale e l’immaginario a partire dal privilegio della soglia. Il suo sguardo ha la facoltà di far rivivere un avvenimento in immagine, ma allo stesso tempo di far precipitare questa immagine nel reale, come accade nel passaggio dal sogno alla veglia. L’incanto trae il suo potere dalla forza di trasformazione, cioè di far passare lo sguardo, il corpo, e l’esperienza in generale, da uno stato a un altro. Il suo movimento decisivo è il rovesciamento delle parti.
Il festival dell’incanto a Lipari
Il recente festival che si è tenuto tra Lipari e Palermo (22-28 settembre) ha avuto per nome Il viaggiatore incantato. Curato dall’artista Emanuele Lo Cascio, dal critico d’arte Paola Nicita e dalla scrittrice Evelina Santangelo, il festival ha visto come protagonisti autori e artisti provenienti da aree geografiche diverse, geografie per nulla serene, trattandosi di Africa, Iran, ex Jugoslavia.
Ma il titolo – Il viaggiatore incantato – ispirato dal racconto omonimo dello scrittore russo Nicolaj Leskov, sollecita qualche richiamo, come quello del poeta Rilke, secondo cui “per scrivere un solo verso bisogna avere visto molte città, uomini e cose”. Scrivere e narrare, allora, – anche attraverso il video – implica una testimonianza particolare: non si scrive secondo ciò che presumiamo di essere, ma secondo ciò che abbiamo vissuto. È in questa specifica prospettiva che il festival ha posto le sue basi. In tal senso il viaggiatore incantato prefigura una promessa di liberazione, che trasforma però la narrazione in un dramma storico, o realmente presente.
Gli artisti del festival, dall’incanto al disincanto
In effetti, come già Walter Benjamin notava a proposito di Leskov – lo scrittore più profondamente radicato nella cultura popolare russa – l’incantesimo così comune nelle fiabe popolari, costituiva l’antagonista della resurrezione (o apokatastasi), vale a dire “la liberazione da un incantesimo, in senso affine a quello delle favole”. Ora, come i personaggi di Leskov, gli autori e artisti invitati a questa rassegna hanno dato prova di essere stati “favolosamente scampati” ai disastri della storia presente. Il titolo di Leskov viaggia nel tempo, soprattutto nella storia recente, e ha visto questi autori diventare un corpus comune contro l’ingiustizia, la violenza sulle donne (Iran, e non solo), la difesa della memoria come confine contro il revisionismo e il negazionismo, che imperversano senza fine. I loro titoli erano eloquenti: Radio clandestina (Ascanio Celestini), Donne senza uomini (Shirin Neshat), Sussurro e resistenza (Sislej Xhafa), Poster From Teheran, una mostra di artiste iraniane – Women, Life, Freedom – curata da Maryam Ashrafi… Il viaggiatore incantato, qui, s’è trasformato in un viaggiatore disincantato, senza la protezione magica della favola. Nelle loro narrazioni l’incantesimo s’è rovesciato nel suo contrario: una presa diretta del presente come storia di oppressione, di violenze, di resistenze.
I temi del festival
Questo festival si è caratterizzato per mostrare un paesaggio di rovine incombenti, rispetto alle quali lo spettatore è stato invitato a guardarsi attorno, per capire l’incantesimo che strega e fa precipitare intere popolazioni nella barbarie. “Viaggiatori incantati”, che non hanno nulla che vedere con l’industria del turismo che imperversa come un’epidemia irrefrenabile. Il loro viaggio può essere visto come un’introduzione a tutte le possibili liberazioni e resistenze al potere.
D’altra parte, l’immagine della lontananza e del viaggio può tradursi d’un colpo in una brutta sorpresa, soprattutto per chi coltiva l’identità a partire dall’esclusione dell’altro.
In un mondo dove l’identità è la sentinella del confine tra un “io” e un “tu”, questa logica è frantumata dalle testimonianze dirette di questi artisti e autori che hanno cercato un approdo dove narrare l’esperienza del naufragio. Scampati alla paranoia, alla mania di persecuzione diretta verso lo straniero, forme di contagio sociale, questi artisti cercano un approdo. L’identità, divenuta merce di scambio, in questo scenario, è una sfida all’identikit poliziesco. D’altra parte, non è mai detto che le terre che ci danno i natali rappresentino la nostra “origine” o “identità”.
Sulla base di questi presupposti, Lipari – isola-rifugio – ha accolto una serie di artisti e autori la cui esperienza è per molti aspetti comune: sfidare il rischio dell’atrofia dell’esperienza – come già avvertiva Walter Benjamin a proposito di Leskov.
L’approdo di Lipari contro le ingiustizie
“La casa è tramontata”, recita un passo dei Minima Moralia di Adorno, e prosegue: “Le case non esistono più che per essere gettate via come vecchie scatole di conserva”. Scritte dopo la seconda guerra mondiale, queste parole, oggi, ritrovano una sorprendente attualità. Il nomadismo geopolitico, ma anche quello della memoria dei vinti, è sotto attacco. Contro questo scenario l’isola di Lipari è apparsa come “un laboratorio di scambi sociali… Ipotesi di conoscenza, possibilità di cambiamento, di sopravvivenza, in cui la vita stessa è a repentaglio”, come hanno scritto i curatori. In altre parole l’isola come luogo nel quale l’atto dell’ospitalità, a partire dall’arte e dalla cultura, si concretizza in esperienze di “approdo”. Un approdo che per un breve lasso di tempo l’ha trasformata in uno spazio cosmopolita. Infatti, tutte le presenze al festival si sono caratterizzate per essere portatrici di esperienze di fughe, di resistenze al potere, di opposizioni all’ingiustizia, di migrazioni forzate. Un festival che per le sue prerogative ha concatenato poetica e politica. Ma che cos’è una narrazione vissuta? È questa l’interrogazione di fondo posta dai curatori, dagli artisti, e dagli autori presenti al festival. Dal festival è emersa una risposta provvisoria, non risolutiva: narrare è far vedere o ascoltare ciò che è sottratto; e ciò significa far esplodere la congiura del silenzio contro ogni forma di oppressione.
Lo straniero, da ospite a clandestino
Ieri, un naufrago sconosciuto era accolto nell’isola dei Feaci come un ospite sacro. Lo status di ospite cosi vivo al tempo di Omero, oggi è stato catapultato nella barbarie sotto la parola “clandestino”. Questo status, cosi decisivo nello scambio tra i popoli, era insindacabile e lasciava libero di rivelare o no la propria identità o la propria origine. Ulisse si sdebita. Come? Con i racconti, narra le sue disavventure che sono allo stesso tempo una cartografia fisica e mitologica del Mediterraneo. Da un lato Alcinoo, re dei Feaci, dona l’accoglienza. Dall’altro Ulisse ricambia con il racconto, che diventa una specie di dimora portatile. La memoria è ciò che ci resta dopo ogni violenza e disastro. Raccontare non è solo intrattenere, ma sollevare le coscienze dal sonnambulismo del quotìdiano.
Polifemo, il ciclope monocolo – oggi molto diffuso – è colui che non dà ospitalità: un mostro, nemico dello straniero. Dopo più di due millenni siamo i figli dell’Odissea, dove Itaca è una terra promessa e sempre più invisibile. In questa prospettiva, questo festival ha suggerito una riflessione importante: la distinzione che separa le memorie vissute da costrutti retorici.
Questo corpus comune fra artisti, autori, e curatori è emerso dall’esperienza diretta di chi ha vissuto sul proprio corpo le ferite del presente, o si è fatto partigiano della memoria. In un mondo in cui il razzismo, il negazionismo, la violenza deliberata sulle donne sono diventati mezzi di comunicazione di massa, e dove l’ideale dell’io è scivolato verso l’impero maschilista così in voga dalla pubblicità come altrove, allora la lotta contro tutto ciò, è non solo una resistenza, ma un imperativo etico e politico!
Il valore della memoria
Dalla civiltà di Omero a quella contemporanea si registra una caduta senza fine verso la barbarie. È qui che il festival apre una finestra sul passato come si è visto nello spettacolo di Ascanio Celestini, che a partire dell’eccidio delle fosse Ardeatine, ne ha rilanciato tutta la incancellabile memoria.
La memoria dei vinti è a rischio, e pertanto transita dai luoghi di non-diritto alle città-rifugio, o isole-rifugio, come Lipari in questa circostanza. Non diversamente è accaduto il 27 e 28 settembre al museo Riso di Palermo, dove l’artista kosovaro Sisley Xhafa con gli studenti dell’Accademia di Belle Arti ha affrontato la convergenza tra arte e resistenza al potere.
D’altra parte, nel film di Shirin Neshat – Donne senza uomini – è mostrato un frammento di storia dell’Iran degli Anni Cinquanta del secolo scorso, dove quattro donne subiscono violenze d’ogni specie, fino ad approdare in una specie di terra promessa dove trovare rifugio dalle ferite subite.
L’attualità di queste violenze subite dalle donne rimbalza nella mostra curata da Maryam Ashrafi: anche qui il corpo – il sacrificio del taglio dei capelli – è la testimonianza inequivocabile della violenza scatenata contro le donne iraniane.
In queste narrazioni il riconoscimento dell’altro, in tutte i suoi volti storici e di genere, passa per la ferita. Questo è emerso dal festival. D’altra parte, il naufrago per antonomasia – Ulisse – non è lo sconosciuto che fu riconosciuto solo da una ferita alla gamba da una donna, Euriclea, la sua nutrice, che di ferite se ne intendeva? Il corpo in queste narrazioni svolge una funzione guida: indica allo spettatore il punto da cui vedere il senso del mondo oggi. In questo scenario la ferita diventa la lingua della sopravvivenza.
Marcello Faletra
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