Il sentimento oltre la tecnica. Intervista all’artista Beatrice Marchi
Con un’opera che racconta il sentirsi inadeguati rispetto a una professione in cui la tecnica ha assunto un ruolo dominante, Beatrice Marchi partecipa alla mostra che esplora gli spazi di speranza tra scienza e finzione. Ne abbiamo parlato con lei
“Un cannocchiale della coscienza utopica per penetrare l’oscurità”. Così Beatrice Marchi (Gallarate, 1986; dal 2018 vive a Berlino) descrive la scultura The Photographer Lens (2021), ora esposta al Museion di Bolzano, in occasione della mostra collettiva Hope (a cura di Bart van der Heide e Leonie Radine in collaborazione con il musicista, teorico e scrittore DeForrest Brown Jr.), terzo ed ultimo capitolo del progetto artistico Techno Humanities. L’artista multidisciplinare si è presentata all’appuntamento con un’opera che riflette il concetto di riscrittura degli spazi creativi, reali e immaginifici, attraverso le strategie politiche dell’archiviare, collezionare, scrivere e formulare ipotesi. Una ricerca che è anche alla base del lavoro degli altri numerosi artisti e artiste internazionali coinvolti, tra cui Sophia Al-Maria, Ei Arakawa, Trisha Baga, Black Quantum Futurism, Tony Cokes, Irene Fenara, Petrit Halilaj, AbuQadim Haqq, Lawrence Lek, Nicola L., Bojan Šarčević, Suzanne Treister, Ilaria Vinci, LuYang, Il percorso espositivo prevede anche alcune opere provenienti dalla collezione stessa di Museion di Allora & Calzadilla, Shūsaku Arakawa, Ulrike Bernard & Caroline Profanter, Shu Lea Cheang, Tacita Dean, Sonia Leimer, Ana Lupaş e Riccardo Previdi. Abbiamo intervistato Beatrice Marchi.
Intervista a Beatrice Marchi
Come nasce quest’opera, metafora della figura di “The Photographer” che, come si legge nel catalogo, “opera nell’industria cinematografica, segnata dallo stress da prestazione, dalla vanità, dal consumo e dalla logica del progresso”?
L’ho presentata per la prima volta all’Istituto Svizzero di Milano, nel 2021, nella prima mostra post Covid, la bipersonale La Città e i Perdigiorno con Mia Sanchez. Lì ho svelato per la prima volta il personaggio che chiamo “The Photographer”, presente anche in alcune mie performance, video, sculture e opere pittoriche. In particolare, affronto il sentimento di sentirsi inadeguati rispetto a una professione in cui la tecnica, oggi, ha un ruolo particolarmente importante. Agli inizi della carriera, per mantenermi, lavoravo come videomaker per prodotti commerciali: ricordo la frustrazione per non essere all’altezza della situazione, perché da autodidatta e con una strumentazione improvvisata percepivo la competizione con i colleghi. Mi sono avvicinata all’arte per allontanarmi da questo pensare in termine di competizione rispetto alla tecnica. Il mio percorso artistico, del resto, si è sempre diramato in tantissime pratiche, come se volessi evitare quel tipo di attitudine.
Intendi il tecnicismo?
Sì, il manierismo e il tecnicismo. Evitarli, dal punto di vista artistico, mi ha permesso di sperimentare rifuggendo le definizioni.
Tornando a The Photographer Lens, si tratta di una struttura lunghissima che ricorda un telescopio o un cannocchiale. Da una parte è un inno alla fiducia nella tecnologia, dall’altra, nel suo essere un po’ “accroccata”, è come se volesse mostrarne anche il lato più vulnerabile…
Esattamente. Ho voluto mostrare quanto sia precario volersi definire attraverso una professione o un oggetto. Di conseguenza ho creato un obiettivo lunghissimo, con tubi recuperati di diversi materiali e forme che, comunque, restituiscono la funzionalità dell’oggetto. La lente spostata così avanti permette al fotografo di zoomare tantissimo, quindi l’obiettivo è veramente pensato per essere usato. Ma è anche fallimentare, perché non è utilizzabile: cade, non è trasportabile. E anche il personaggio The Photographer è clownesco, con quella lente sovradimensionata che lo mostra un po’ comico quando cade su se stesso o inciampa nel trasportarla. Mi interessava costruire un personaggio che cadesse nel tentativo di essere forte.
Si tratta di una scultura unica o ne hai realizzate altre?
Ce ne sono altre. Sto sviluppando una serie di sculture e pitture che contemplano qualsiasi forma possa rientrare nel ruolo di obiettivo fotografico, con prolunghe di vario genere.
Beatrice Marchi e lo storytelling nell’arte
In questa rappresentazione che riflette il tuo mondo interiore, l’opera in sé è un po’ uno specchio delle tue vulnerabilità, della tua ricerca di equilibrio. Ma c’è anche un aspetto giocoso, il non prendersi troppo sul serio…
Cerco di non fare la vittima. C’è però la volontà di avvicinarsi ad altre persone che magari sentono certe frustrazioni: l’idea è di rendere visibile ciò che è nascosto, proprio per poter comunicare questo sentimento ad altre persone che lo stanno provando. C’è, poi, un riferimento a Susan Sontag che nel suo testo On Photography riflette sull’atto del fotografare che può considerarsi dominante nel momento in cui viene usato come mezzo per appropriarsi di immagini da collezionare come souvenir. Non a caso i termini usati per descrivere il gesto di fotografare hanno un significato violento, come catturare. In inglese “shooting” vuol dire anche sparo.
Il tuo lavoro è stato spesso messo in relazione allo storytelling, ti consideri una narratrice?
Questa è una lettura più facile del mio lavoro, ma non credo che quello che faccio sia esattamente narrativo: è un mettere a nudo alcuni sentimenti. Evidentemente se utilizzo dei personaggi immaginari, basati su certe esperienze che ho vissuto personalmente, la mia pratica viene letta come narrativa.
Hai studiato all’Accademia di Belle Arti di Brera con Alberto Garutti. Qual è stato il suo insegnamento?
Ho studiato prima, nel triennio, con Alberto Garutti, e poi ad Amburgo, nel 2015, con Jutta Koether. Due artisti che sono agli opposti. Garutti mi ha insegnato l’importanza del mettersi in gioco con la propria esperienza e le fragilità, facendolo con leggerezza. Nelle sue classi ho imparato a ridere di cose serie. Lui considerava gli studenti artisti: questo cortocircuito è stato illuminante, perché per la prima volta venivo trattata da un adulto al di là del ruolo che avevo pensato di avere fino a quel momento. L’ironia e la concettualizzazione, nei miei lavori, vengono da Alberto, mentre con Jutta Koether ho perso la concettualizzazione, e sono tornata a dipingere e usare la performance senza vergogna.
Perché senza vergogna?
Nel corso di Alberto la classe era molto severa nei giudizi. Si creava un dialogo veramente serio intorno ai lavori e quando non eri veramente convinto, se non sapevi difendere il lavoro, entravi in crisi. Non facile, ma utile per acquisire la consapevolezza di vedersi dal di fuori. Una bella lezione di vita.
Quindi l’esperienza di Amburgo è stata più liberatoria?
Esatto. La somma di queste due esperienze ha portato alla specie di ibrido, non definibile, che è il mio lavoro.
Ci sono altre figure di mentori?
Mi hanno ispirato anche Kerstin Brätsch per la sua capacità di creare collaborazioni, Federico Fellini e Giulietta Masina per aver saputo raccontare la vulnerabilità del clown, Mike Kelley per la sua generosità e Rembrandt perché mi fa pensare che si sia divertito dipingendo.
Manuela De Leonardis
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati