La giovane curatrice Gaia Bobò racconta il suo lavoro e la sua ricerca
Curatrice e co-fondatrice della realtà indipendente SPAZIOMENSA a Roma, Gaia Bobò, nata in Sicilia nel 1995, si racconta: una ricerca curatoriale fatta di relazioni e oblio
Mi trovo spesso a definire la curatela come “mestiere”, intendendola come esercizio quotidiano di relazioni, in primo luogo con le artiste e gli artisti, e di pratiche che si consolidano nel tempo con lo scopo di costituire architetture non solo funzionali, ma anche, e soprattutto, ospitali. Nel mio percorso, la progettazione espositiva è stata in assoluto il banco di prova per verificare la solidità di questo approccio relazionale. Spesso frutto di innamoramenti e intuizioni improvvise, le idee curatoriali sarebbero infatti rimaste forma vuota senza la fiducia delle artiste e degli artisti, la cui visione ha permesso di dare struttura a degli spazi comuni.
Dispersione e patrimonio culturale
Provando a sistematizzare la mia ricerca alla luce dei suoi esiti più recenti, credo che questa possa essere letta come un riverbero del pensiero intrusivo della dispersione. Mi interessa infatti l’esperienza della perdita come processo dinamico: la mancata trasmissione di informazioni, la dissipazione dei flussi di energia, o ancora lo scarto semantico che caratterizza la transizione tra diversi linguaggi. Ciò deriva probabilmente dai miei studi legati al patrimonio culturale, e in particolare alla sua declinazione immateriale, che mi hanno portata a diffidare di una lettura della storia e del patrimonio come entità statiche, inducendomi piuttosto a considerarle come residui di un titanico e vertiginoso “non pervenuto”.
La tensione tra testo e immagine
Nella curatela del progetto ICH – Intangible Cultural Heritage (2018), ad Amburgo, la ricerca ha riguardato le dinamiche di trasmissione del patrimonio immateriale nell’ottica di una costante tensione verso l’oblio, esplorando il possibile ruolo degli artisti nella riflessione critica su questa fragilità. Ancora, il potenziale dello scarto semantico e del rimosso è stato il campo d’indagine della mostra A Word That Troubles (2020), in cui mi sono interessata alle zone d’ombra tra parola e immagine incarnate dal disegno, dalla traduzione, dalla scrittura asemica, dall’incantesimo e dall’ekphrasis. Non è casuale che una costante della mia ricerca sia il rapporto con la Poesia Visiva, sostanziato nelle curatele dei progetti monografici dell’artista Lamberto Pignotti e alle collaborazioni con Tomaso Binga e Lucia Marcucci – in particolare nella sua doppia mostra personale con l’artista statunitense Angela Washko, tenutasi presso la Temple University Rome.
Progetti passati, presenti e futuri
La mostra Porta Portese (2021) curata presso SPAZIOMENSA, realtà indipendente di Roma da me co-fondata, si è posta come interrogazione poetica sullo spazio culturale del mercato, inteso come luogo di transito votato alla circolazione e delocalizzazione della cultura materiale, nonché come espressione culturale non-monumentale che si autodefinisce nella costante dispersione, contrapponendosi a una logica accumulativa e conservativa.
Il mio ultimo progetto Dinamica di assestamento e mancata stasi (2023) – il cui titolo è mutuato da un dipinto di Voltolino Fontani del 1948 – è stato sviluppato per la Fondazione La Quadriennale di Roma attraverso un saggio e in una mostra. Quest’ultima presentava un Uragano di Donato Piccolo e tre Autoritratti di paesaggio di Luca Vitone. La dispersione è stata qui declinata come fenomeno materico ed energetico, indagato tramite la messa in campo dei concetti di erosione e autodistruzione come chiavi di lettura dei processi artistici dell’arte italiana del XXI secolo.
Concludo introducendo il visual essay, che intendo come una ‘lista dei desideri’ per i prossimi progetti da realizzare con tre artiste e collaboratrici incredibilmente talentuose: Agnieszka Mastalerz (Łódź, PL, 1991), Auriea Harvey (Indianapolis, US, 1971) e Sofia Mascate (Abrantes, PT, 1995).
a cura di Dario Moalli
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #74
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