Dialoghi di Estetica. La critica d’arte Serena Carbone sull’artista Marcel Broodthaers
L’artista belga Marcel Broodthaers e le sue poetiche dell’ombra sono fra i maggiori ambiti di ricerca della critica d’arte contemporanea Serena Carbone. Ne abbiamo parlato con lei in questa intervista
Serena Carbone (1981) si occupa di storia e critica d’arte contemporanea, con particolare riguardo alla relazione che intercorre tra arte, storia e società. Nel 2019 ha curato la mostra No, Oreste, No. Diari da un archivio impossibile al MAMbo. Docente di discipline umanistiche, ha lavorato per tre anni nella scuola in carcere, ha scritto saggi e articoli su diverse riviste di settore, collabora con il quotidiano Il manifesto e con il blog online Antinomie. Questo dialogo si sofferma su alcuni dei temi affrontati nei suoi due libri L’arte in preda al possibile. Pratiche di costruzione di comunità (Gli Ori editori, 2023) e Marcel Broodthaers. Poetiche dell’ombra (Mimesis, 2018).
Intervista a Serena Carbone
I tuoi libri rendono manifesta la necessità di portare l’indagine sulle arti a misurarsi con quelle che potrebbero essere chiamate “inevitabili sfuggevolezze dell’epoca contemporanea”. Esse trovano espressione in quelle poetiche e pratiche artistiche che, specificandoci nei percorsi di neoavanguardia, incentivano altri modi di fare e spiegare le arti. Quelle sfuggevolezze, in fondo, sono modi per dichiarare forme diverse di resistenza a eventuali cristallizzazioni delle dinamiche culturali, delle quali naturalmente risentono anche le arti. Da un punto di vista teorico, che cosa significa per te affrontarle nelle tue ricerche?
Quando mi sono posta questa domanda, o meglio quando sentivo che il lavoro sulla contemporaneità risentiva ancora di mancanze e di un “metodo” – che probabilmente non ho mai acquisito in realtà – ho deciso di intraprendere la strada del dottorato. Per tre anni ho studiato e poi scritto solo di un artista, un lusso di questi tempi. Questo per me è il punto di vista teorico: focalizzarsi su un tema e sviscerarlo senza deadline e scrivere senza limiti di battute. Poi ho scelto Marcel Broodthaers su cui focalizzare le mie ricerche, l’artista che dell’industria culturale ha fatto il perno di tutto il suo lavoro. Non è casuale che il suo sguardo sia continuamente rivolto al XIX secolo e che i suoi riferimenti siano Baudelaire e Mallarmé. L’Ottocento rappresenta uno snodo fondamentale per comprendere le dinamiche sociali ed economiche in cui l’arte di oggi è completamente immersa: l’opera che si fa oggetto d’arte, l’unicum che diventa serie, il simbolico che si ingarbuglia e si intreccia con finalità e funzioni legate non al valore d’uso ma al valore di mercato. Broodthaers è un artista colto, conosce Marx, conosce Lukacs, legge Lucian Goodmann (autore di Pour une sociologie du roman pubblicato per Gallimard nel 1964). Lavorare su di lui ha reso necessario leggere Benjamin, Simmel, Foucault ma anche Melville e poi ovviamente Perec. Autori che ti danno il senso della profondità delle parole, dello scavo, della stratificazione e dopo non puoi più permetterti di essere ingenuo di fronte alla modernità. Broodthaers è stato il mio maestro “teorico”.
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Esaminando le pratiche di arte relazionale, nel tuo ultimo libro scrivi che nonostante possa anche essere chiamata “concettuale”, l’arte “non rinuncia mai al mondo sensibile”. Che importanza ha il rapporto con il reale per quelle pratiche artistiche?
Credo sia fondamentale. Nel libro indago essenzialmente progetti che infatti scelgono di radicarsi su un territorio con cui, tra l’altro, esiste generalmente un legame di tipo personale-affettivo: Latronico (PZ) per Bianco-Valente e Pasquale Campanella in A cielo aperto, Imola per Annalisa Cattani in Quando un posto diventa luogo, San Cesario per Lu Cafausu e la Fondazione Lac o Le Mon. La componente legata al fare esperienza attraverso il corpo e la voce è parte integrante di queste pratiche. Anche quando si organizzano progetti itineranti (come nel caso della School of Narrative Dance di Marinella Senatore o di There is no place like home) è comunque essenziale prendere confidenza con il luogo, parlare con gli abitanti, conoscere le storie, far partecipare i pubblici rendendoli parte attiva del progetto.
Nella tua descrizione delle pratiche artistiche relazionali, in particolare di quelle sviluppatesi in Italia, sottolinei alcuni fattori che sono stati rilevanti per la loro affermazione: il ruolo dell’artista come co-operatore, l’accentramento dei rapporti umani, la possibilità di plasmarsi negli spazi in cui sono attuate. Imprescindibile per la loro riuscita è “l’essere in preda al possibile”. Perché hai scelto questa espressione per il tuo studio sull’arte relazionale?
È una frase mutuata dall’espressione “l’uomo in preda al possibile” usata da Henri Lefebvre per indicare l’orizzonte utopico nel quale occorra che l’uomo “rivoluzionario” si muova. Per trasformare uno status quo ci si deve porre obiettivi vicini, e poi andare avanti, passo dopo passo per arrivare così gradualmente a obiettivi sempre più lontani che, giunti ormai vicini, non saranno più così lontani. Scusa il gioco di parole. È in questo movimento che l’“essere in preda al possibile” esprime il desiderio ma anche il farsi carico del cambiamento; nel momento – l’altro concetto chiave di Lefebvre molto vicino a quello di situazione per Debord – è infatti implicita la presa di posizione del soggetto che passa per l’assunzione di responsabilità (di quel posizionamento) di fronte alla realtà.
Marcel Broodthaers e le poetiche dell’ombra
Nel libro dedicato a Marcel Broodthaers hai anche tracciato il profilo di quelle che proponi di chiamare ‘poetiche dell’ombra’. Per farlo, hai individuato alcuni dei loro tratti: un principio vitale al negativo, l’approccio sottrattivo, la inoperosità. Perché li ritieni caratterizzanti per quei modi di fare arte?
Perché ho amato Bartleby (il protagonista dell’omonimo racconto di Herman Melville), quel suo ostinato silenzio, e quella postura che ho immaginato radicata a terra, un tutt’uno con il pavimento, e quel suo giacere sulla panchina, alla fine, nell’indifferenza. Eppure, quella Divina Indifferenza, qualcosa ha prodotto. La formula di a-grammaticalità, come suggeriscono Deleuze e Agamben, I would prefer not to, si pone in rottura con la convenzionale codifica e decodifica del messaggio, perché mette in crisi l’aspettativa. E tutto questo è chiaro che possa avvenire più attraverso il non-fare che il fare all’interno del sistema della cultura in epoca neoliberista che tutto fagocita – o sussume come meglio si usa dire –, come un blob. L’atteggiamento sottrattivo non necessariamente però coincide con una deriva nichilista, dietro la presa di posizione del soggetto c’è una consapevolezza attiva.
Nel caso della poetica di Broodthaers, hai sottolineato sia il tratto illusorio che più volte risalta nelle sue opere sia il suo modo di fare arte attraverso rinunce e sottrazioni. Quali sono i principali fattori che lo hanno spinto a esprimersi nel secondo modo?
Penso l’aver provato il fallimento. Era un poeta e poi è diventato artista, e poeta si è continuato comunque a sentire per tutto il resto della sua vita. Il suo video più noto, e probabilmente il più significativo, è La Pluie (1969): lui scrive e inizia a piovere, continua a scrivere ma la pioggia bagna il foglio e cancella l’inchiostro, e lui continua a scrivere. Vi sono delle strade che nascono fallimentari e non si può fare altro che percorrerle, con consapevolezza e con ostinazione, perché in un orizzonte capovolto, come capita a Don Chisciotte, quel fallimento in realtà è una vittoria.
Mettere in discussione le possibilità del medium è certamente una delle esigenze che animano la poetica di Broodthaers. Tuttavia, tu osservi che a caratterizzarla sarebbe in ultima analisi il décor, quel suo modo di lavorare sullo spazio e di intenderlo anche in relazione all’influenza della poetica duchampiana: non tanto alla luce del reale in sé, quanto piuttosto all’immaginario che di esso ha offerto la società dei consumi. Quali sono le principali ragioni alla base di questa tua impostazione teorica?
La parola chiave è conquista, del resto lui intitola così l’ultima sua mostra Décor. A Conquest by Marcel Broodthaers a Londra nel 1975. Lo spazio deve essere conquistato. E per spazio si intende quello del simbolico ovviamente, razziato continuamente dal marketing detto “culturale” che ne fa categoria di mercato. È una questione di potere: non esiste lo spazio vuoto, nel campo del potere e della politica esso viene riempito costantemente. Il décor (che si avvale di ambienti interi e dei diversi gradi di rappresentazione attraverso l’uso dei media) è la “tecnica” che gli permette tale conquista.
Insieme a quel suo tratto umbratile, che mostri efficacemente con la tua indagine, la poetica di Broodthaers è anche contraddistinta dal suo fine approccio critico, lo stesso che lo porta a mettere in discussione anche il ruolo del museo. Come si caratterizza questa fase del suo lavoro?
Da direttore del suo fittizio museo nel 1968, il Musée d’Art Moderne-Département des Aigles, Broodthaers si ritrova a essere nel 1972 invitato a esporre all’interno del primo grande museo progettato per assolvere nella realtà a questa funzione, il Fridericianum di Kassel. E una volta ricevuto l’invito da Harald Szeemann cosa fa? Espone la Section Pubblicité, composta dalle riproduzioni fotografiche e tipografiche degli oggetti presentati nella precedente tappa, la maestosa Section des Figures (quella con l’aquila per intenderci). Reale e fittizio si intrecciano continuamente, e l’arma dell’ironia (prettamente belga, come quella di Magritte) gli permette di svelare le carte del suo gioco in maniera tanto straniante quanto sorprendente, mettendo sempre in discussione il funzionamento dell’opera all’interno di un determinato sistema, interrogandola (l’opera) sempre sul suo statuto e la sua legittimità d’esistenza. Documenta 5 è stata l’ultima tappa del suo Musée.
Davide Dal Sasso
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Davide Dal Sasso
Davide Dal Sasso è ricercatore (RTD-A) in estetica presso la Scuola IMT Alti Studi Lucca. Le sue ricerche sono incentrate su quattro soggetti principali: il rapporto tra filosofia estetica e arti contemporanee, l’essenza delle pratiche artistiche, la natura del catalogo…