Il trauma del mosaico. La relazione tra Alberto Burri e Ravenna al MAR
L’esperienza della guerra, la collaborazione con una grande azienda del territorio, la sperimentazione del mosaico. Il grande artista Alberto Burri in una mostra a Ravenna
Il dottor Alberto Burri (Città di Castello, 1915 – Nizza, 1995) nasce mentre scoppia la Prima Guerra Mondiale. Ed è un po’ come se i rumori delle trincee, i loro segni fossero rimasti impressi in tutti i suoi lavori. Il suono e l’odore della guerra ha caratterizzato anche la sua vita da giovane medico di complemento dell’esercito italiano, catalogato come “fascista irriducibile” dagli americani che lo tennero nel campo militare fino al 1946. È in quel momento che decide di abbandonare a 31 anni la Medicina e dedicarsi alla pittura. La presenza della polvere da sparo si vede bene anche nei lavori esposti al Museo MAR di Ravenna: nel silenzio che caratterizza l’atteggiamento da artista scontroso, non si possono non sentire gli echi di quella esperienza mai rinnegata.
Viene da chiedersi se la scelta di Burri, che diviene per caso parlamentare nel 1959 quando Palma Bucarelli espone una sua tela a Roma proprio su iniziativa del PCI, non sia una forma di mediazione anche politica nei confronti di una diversa aria governativa in Italia.
La mostra ravennate, curata da Bruno Corà, apre al pubblico nell’ambito dell’VIII Biennale del mosaico: l’apparenza del “decoro”, la grave colpa del mosaico, sembra in questa operazione tingersi di una sfumatura di tipo politico. Quasi un’offerta di pace, in tempi di profonda lacerazione?
Alberto Burri: le opere in mostra a Ravenna
Il trauma del mosaico è sempre quello. Muoversi tra decorazione, percepita alla Adolf Loos come delitto, e arte contemporanea, percepita come rischio. Le opere in mostra al MAR sono nate nell’epoca d’oro del gruppo agroalimentare della famiglia Ferruzzi, guidato allora da Raul Gardini e hanno permesso di ovviare apparentemente ad entrambi i traumi, presentando un’ampia processione di opere che possono essere intese musive, con qualche invece lavoro più tradizionalmente burriano. Il mosaico sembra così uscire dalla cantina degli arredi déco per entrare nel salotto buono dell’arte contemporanea. Parte nel 1988 la collaborazione con il gruppo Ferruzzi, che porta alla creazione di diversi cicli che evocano la tradizione iconografica della città. Parallelamente vengono realizzate anche altre opere, come i dipinti Nero e l’oro del 1993 oppure interventi pubblici Grande Ferro R realizzato per l’apertura del Palazzo delle Arti e dello Sport Mauro De André. La relazione con la città non è occasionale o sporadica, ma nell’ultima fase creativa dell’artista porta alla realizzazione di una serie diversa per esiti e forme di opere. Questo rapporto di committenza pubblico – privata sembra riemergere in filigrana nell’ esposizione al MAR che mette insieme opere che hanno in comune a volte l’occasione, altre volte servono da contrappunto al nucleo centrale che ha portato alla scelta di Burri come artista bussola della Biennale del Mosaico 2023.
Il maestro di Città di Castello non si fa infatti scrupolo di rendere decorativa la ferita che ha sempre costituito l’humus del suo lavoro, e questo è evidente nelle opere realizzate esplicitamente per la serie ravennate, tanto da far storcere il naso al pittore coevo Mattia Moreni, con la frase “Ecco il Pierre Cardin dell’arte!”.
La sensazione di un impacchettamento della polvere di Burri non può sfuggire. La patina dell’oro zecchino o la mistica monocroma di alcuni lavori particolarmente intensi, dona sempre luce anche al nero più ferino. La “purezza espressiva” che è stata un po’ la linea particolare di Burri, portata all’estremo rigore dei Cretti, fatica ad essere rinvenuta dentro i confini della cornice da salotto.
Arte, mosaico e decorazione a Ravenna
Si esce quindi con un sapore un po’ da Costa Azzurra, con uno sguardo quasi luminoso dall’esposizione del MAR, che comunque ha compiuto un’operazione rischiosa e in parte riuscita, rivendicando nell’ottava edizione della Biennale la cittadinanza di un’arte decorativa, che non è ancora riuscita a diventare categoria artistica. La stagione più felice e creativa è stata sicuramente quella che ha visto la generazione di Burri invitata a lavorare in modalità sinergica con le maestranze locali. Poi di nuovo un periodo di silenzio, e la ripresa con il progetto Biennale che mette insieme azioni naif ad altre di maggiore spessore artistico e conoscitivo.
Ornamento e delitto, quindi per dirla con Adolf Loos, potrebbe essere l’epigrafe di questo pezzo di vicenda artistica di Burri, condensato nell’esposizione di Ravenna. La critica alla modernità che in qualche modo implicitamente anche nella forma, esuberante per essere cellotex di Burri, ammicca dai lavori esposti, pur nascosta dall’amnesia contemporanea.
Elettra Stamboulis
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