La mostra newyorkese di Corrado Cagli, artista ebreo che fu fascista
La storia di Corrado Cagli è una di quelle che bisogna raccontare. Complessa e a tratti incoerente, la sua figura è protagonista di una mostra al CIMA di New York
Ebreo, omossessuale, fascista prima, esule poi: Corrado Cagli (Ancona, 1910 – Roma, 1976), artista il cui nome in Italia è legato alla scuola romana, è una figura difficile da etichettare. Proprio questa difficoltà è il punto di forza di una mostra in corso al Center for Italian Modern Art di New York che, come da tradizione di questa istituzione, prende in carico il compito di far conoscere negli USA il lavoro di un artista ancora poco noto oltreoceano, ma la cui opera testimonia le complesse relazioni intellettuali tra Italia e Stati Uniti intorno alla Seconda guerra mondiale.
La mostra di Corrado Cagli a New York
La mostra, dal titolo Transatlantic Bridges: Corrado Cagli, 1938-1948, è curata da Raffaele Bedarida, che nel 2018 ha pubblicato per Donzelli un libro dallo stesso titolo, uscito di recente in traduzione inglese per le edizioni del Primo Levi Center. L’installazione raccoglie dipinti, lavori su carta, illustrazioni, fotografie e oggetti, concentrandosi in particolare sugli anni in cui Cagli, in fuga dalle leggi razziali, si trasferì a New York grazie all’interessamento dell’allora direttore del MoMA. Le opere esposte partono tuttavia dagli anni precedenti, quelli in cui l’artista aveva inizialmente sostenuto il fascismo, in cui trovava un ideale di rinnovamento che lo entusiasmava. Sono quegli gli anni dell’interesse per l’arte pubblica, uno strumento di costruzione dell’identità nazionale secondo Cagli, e della commissione della fontana dello Zodiaco a Terni, di cui il CIMA espone qui uno studio preparatorio del diametro di tre metri e mezzo. Ma quelli sono anche gli anni di opere che (più o meno velatamente) tentano di integrare l’esperienza omossessuale all’interno di rappresentazioni di ispirazione classica, come Il neofita, olio su tela del 1933, all’epoca mai presentato pubblicamente. In questo modo la mostra contestualizza l’artista, prima di intraprendere, sulle sue tracce, una decennale avventura americana.
L’arrivo in America di Corrado Cagli
Costretto a lasciare l’Italia a seguito della promulgazione delle leggi razziali, Cagli arrivò a New York nel 1938 dopo un breve periodo parigino e diverse scaramucce con il regime. Come quella avvenuta in occasione dell’esposizione universale di Parigi del 1937, quando l’artista aveva realizzato una serie di opere sui grandi italiani della storia che il Ministro degli Esteri, Galeazzo Ciano, aveva fatto rimuovere perché l’associazione tra le glorie della nazione e un artista ebreo e omosessuale non era gradita al regime.
Inizialmente, nella metropoli americana, Cagli non riuscì a trovare quella comunità artistica che lo aveva circondato a Roma nutrendolo di stimoli e spirito di fratellanza, quella comunità ritratta in opere come Partita a carte del 1937, in cui compaiono i suoi amici artisti Afro e Mirko Basaldella ed esposta in mostra. “A New York”, ci racconta Bedarida, “Cagli aveva già esposto nel 1937, all’interno di una mostra a La Cometa, una galleria segretamente finanziata dal regime per cercare di vincere lo scetticismo degli americani nei confronti dell’arte fascista, esponendo anche artisti ebrei, donne e oppositori del regime. In quell’occasione, Cagli era andato a New York in rappresentanza del fascismo senza sapere che ci sarebbe tornato da esule appena un anno dopo”. Nei primi tempi l’artista italiano si trovò isolato, privo di riferimenti culturali e del conforto quotidiano degli amici. Gli ci volle qualche anno per iniziare ad ambientarsi, soprattutto grazie al rapporto con la Julian Levy Gallery, dove espose nel 1940, e al circolo neoromantico che vi ruotava intorno.
La comunità gay e la guerra
Un po’ alla volta, Cagli divenne una figura di spicco nella comunità di emigrati a New York e partecipò attivamente alla nascente sottocultura gay della città, diventando una voce importante nella denuncia della retorica fascista e impegnandosi nel movimento surrealista che si opponeva ad André Breton, il quale aveva più volte espresso opinioni omofobe e che negli USA non era gradito per via del suo esplicito supporto al comunismo. Diventato cittadino americano, nel 1941 decise di arruolarsi, ma gli italiani al tempo erano il nemico e nei primi anni non gli fu concesso di portare armi. Dopo un lungo addestramento, venne infine mandato a combattere in Europa. “Il 6 giugno del 1944” ci racconta ancora il curatore “mentre a Londra inaugurava una mostra con alcuni dei suoi lavori, Cagli era impegnato con le truppe nello sbarco in Normandia. Nei mesi che seguirono, marciò attraverso l’Europa, spesso disegnando la distruzione che incontrava, fino alla Germania, dove fece parte delle forze che liberarono il campo di concentramento di Buchenwald”. Le immagini di quei corpi torturati rimasero impresse indelebilmente nella sua memoria e Cagli continuò a rappresentarle per il resto della vita attraverso opere che, isolando singoli individui, testimoniano l’orrore della sistematica deumanizzazione degli ebrei. È il caso, per esempio, di un disegno del 1945 che il CIMA sceglie di esporre in posizione isolata rispetto ad altri lavori, invitando a una fruizione privata e riflessiva.
Corrado Cagli, dal Dopoguerra in Italia
A conclusione della guerra, nel 1946, Cagli tornò a New York dove riuscì finalmente a crearsi un ambiente culturale, anche grazie alla relazione con il New York City Ballet e al suo iconico direttore George Balanchine, con cui iniziò una fitta collaborazione che lo portò a firmare le scene di diverse produzioni.
Nella fruizione collettiva del balletto e del teatro, l’artista italiano ritrovò, seppure in forma impermanente, quella funzione che negli anni Trenta aveva attribuito all’arte pubblica. Ma dall’Italia arrivava il richiamo del fermento intellettuale del Dopoguerra e nel ‘48 Cagli decise di rientrare in patria dove si inserì, non senza controversie, in quel dibattito sull’eredità fascista che vedeva da una parte il desiderio di buttarsi alle spalle le sofferenze del Ventennio, dall’altra il bisogno di attribuire responsabilità ai complici del regime. “Era un momento di grossa agitazione sociale”, spiega Bedarida. “L’inaugurazione di una sua mostra finì addirittura a cazzotti perché c’erano Perilli e Attardi di Gruppo Forma che gli davano del fascista, mentre gli amici di sempre, Guttuso, Mirko e Afro, lo difendevano. Ma Cagli veniva attaccato non solo per le sue simpatie fasciste, ma anche per la sua identità: c’erano anche tanto antisemitismo e omofobia in quegli anni in Italia”. E tuttavia, all’indomani della guerra, Cagli emerse come una figura fondamentale nel rivitalizzare i collegamenti culturali tra Italia e Stati Uniti, collaborando con il MoMA, con la critica Irene Brin e la Galleria romana L’Obelisco. Ma quando, nel 1951, il governo democristiano decise di censurare una mostra organizzata per denunciare l’intervento degli USA in Corea che avrebbe coinciso con la visita in Italia del generale Dwight Eisenhower, per protesta Cagli restituì il passaporto americano. Il ponte transatlantico si spezza e per i due decenni successivi l’artista resterà ben piantato con i piedi nella rinascita culturale di un’Italia tutta da reinventare. Nelle sue opere c’è la critica e la satira, c’è il desiderio di esprimersi con libertà, di parlare a un pubblico ampio, ma senza mai risparmiargli la verità. La mostra al CIMA racconta la sua produzione poliedrica, il suo impulso sperimentale, la sua capacità di lasciarsi permeare da stili e tendenze, ma anche il suo radicamento nella tradizione classica. Così, lungo un percorso che si apre a temi diversi, la mostra riesce a raccontarci la storia di un artista che, attraverso i decenni più drammatici del Novecento, costantemente rinegozia la sua identità, senza imprigionarla dentro rigide categorie e senza paura di esporsi in prima persona. Quella di Cagli diventa quindi una parabola quanto mai attuale che parla del ruolo dell’arte nei momenti di crisi e delle responsabilità degli artisti nel restituire le complessità del reale.
Maurita Cardone
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