La politica delle immagini. Intervista a Jacopo Martinotti
Monumenti, storia e fantasmi del passato. Il giovane artista Jacopo Martinotti racconta la sua pratica artistica, fra ispirazioni e aspirazioni
Jacopo Martinotti (Milano, 1995) è irriducibilmente attratto dal potere delle immagini. Quest’espressione, che ha dato pure il titolo a un celebre saggio di David Freedberg, nel caso di Martinotti è da leggere come un riferimento esplicito alla dimensione politica delle immagini, alla loro capacità di esercitare una forma di autorità. Per questo la ricerca dell’artista è sensibile al mezzo che, nel corso della storia, ha maggiormente mostrato i propri muscoli: la scultura e, in particolar modo, il monumento. Questo interesse, tuttavia, non si manifesta attraverso l’utilizzo dei materiali tradizionalmente associati al linguaggio scultoreo: messe da parte fusioni in bronzo e statue in marmo, le sue opere parlano piuttosto delle ombre della scultura, delle sue tracce nascoste, della sua disgregazione. È come se i progetti di Martinotti conservassero il ricordo della monumentalità e, in generale, di un passato che tende ad affiorare sotto forma di frammento, di fantasma. La stratificazione e la sedimentazione storica sono un altro riferimento imprescindibile, al quale l’artista sembra però ribellarsi: non a caso la pratica di Martinotti tende spesso all’effimero, al performativo, quasi a volersi scrollare di dosso il peso del passato.
Intervista all’artista Jacopo Martinotti
La tua prima opera che mi è capitato di vedere è stata anche quella che mi ha colpito di più. Anno X è un video che mostra la sagoma di un’ombra – quella del tuo corpo – proiettata su una porzione del Vittoriano di Roma, mentre compie una serie di movenze che richiamano esercizi ginnici d’epoca fascista: una specie di scultura in movimento, spettrale e inquietante, ma al tempo stesso quasi parodistica. Mi sembra che quest’opera contenga molti degli aspetti che informano la tua poetica.
Ci sono immagini, e credo siano le più potenti, che nascono come contrazioni dilatate, frame di un’intensità ricapitolativa dello sguardo. Anno X è sicuramente stato uno dei lavori che ha restituito tale sensazione, un video dove il mezzo cinematografico sembra pensarsi addosso. Ho sempre guardato l’ombra come sostanza corporea della memoria, che in questo caso emerge dalla pietra come elemento organico che ricorda e respira. Nei miei lavori sento tornare spesso il tentativo di rendere tangibile e concreta la condizione fugace della traccia, rivelandone la finzione. Fabio Mauri è un artista che secondo me ha saputo cogliere perfettamente il rapporto tra memoria politica, cinema e realtà senza rinunciare ad una tensione poetica.
Rivolgi spesso il tuo sguardo alla storia. C’è un atteggiamento nostalgico o passatista?
Penso che la storia ci sia data non come destino ma come materia. Ho l’impressione che ciò che cerca di legittimarsi attuale sfocia inesorabilmente nello scherzo, mentre là dove le cose sembrano deposte e mute affiora lietamente qualcosa di stimolante. In questo senso il passato è l’unica cosa che abbiamo veramente nella misura in cui non ci appartiene.
Il fatto è che non c’è propriamente nulla da salvare, in quanto la memoria si mantiene eternamente viva nel suo sgambettarsi, nell’imbarazzo di non ricordare. Ritrova presenza proprio nell’attimo in cui si rende fragile alla vista. C’è sempre un frattempo custodito in ogni appuntamento con il passato, che è forse l’unico tempo reale che mi interessa, in questo vedersi partire dalla riva di chi resta e vedersi restare dall’orizzonte di chi è partito.
Quest’intensità la cerco anche nel lavoro che non teme di confrontarsi appunto né con la storia né con un rischioso sentimento nostalgico ma anzi, cerca di lasciarsi investire integralmente da tutto ciò per poterlo interrompere.
Mi sembra che il tema del monumento sia centrale nella tua ricerca. Cosa ne pensi del dibattito che da alcuni anni si è generato attorno al ruolo della statuaria e al destino di sculture controverse, specie nello spazio pubblico?
Ritengo la questione del monumento decisiva nel nostro tempo, appunto perché in gioco c’è il rapporto con un passato dal quale si è alienati. La storia si può intendere come enorme promessa mancata, una monumentale proiezione cinematografica o piedistallo oggi svuotato di senso, da cui le sculture sono da tempo scese per porsi in posizione di morte. Ma ciò che rivela il suo vuoto diviene motivo di angosciosa inquietudine al presente.
Come per ogni dualismo tradizionale, trovo retorici entrambi gli atteggiamenti che si impongono, da un lato la volontà di conservare indenne e schermato il cosiddetto patrimonio culturale – ridotto, se mai, a stremato uso decorativo – dall’altro la rimozione che ingenuamente si destina a sottolineare proprio ciò di cui pretende di sbarazzarsi, rimandandone così il confronto. Mi sembra anzi che questi due atteggiamenti sintomatici trovino più che mai nei nostri giorni la loro perfetta coincidenza, nel senso in cui la rimozione è già conservazione e sacralizzazione di un vuoto, di quel trauma che è la perdita di un sentimento reale con il passato. E allo stesso modo ci si conserva quasi con un certo godimento nella riproduzione del trauma.
Più interessante credo sia provare a rendere possibile ciò che sembra aver raggiunto la sua fine, sospendendo cioè quel monologo autoreferenziale che ogni volontà storica predilige. Citando una frase che mi è rimasta impressa di Walter Benjamin, si tratta di riportare l’opera sotto forma di appunto.
Ci sono figure che hanno influenzato il tuo modo di pensare all’arte?
Credo che il mio rapporto con l’arte ci sia stato sin da piccolo, anche se con un approccio accademico e a tratti annoiato. Essendo inizialmente molto più legato alla dimensione scultorea e al disegno, uno degli artisti che ricordo avermi catturato fu Arturo Martini. Dopodiché sono stati sicuramente significativi alcuni cineasti, penso a Pasolini e Antonioni, poeti e filosofi che nel corso del tempo ho conosciuto.
E tra le personalità di oggi?
Ci sono poi incontri nella vita che svegliano e aprono un mondo nel momento in cui ti riportano alla misura d’uomo. Tra i più importanti, nel mio caso. è stato il percorso che ho svolto in accademia, dove tra le diverse figure ho trovato momenti riflessivi con Marcello Maloberti e successivamente Massimo Bartolini.
Hai meno di trent’anni, che idea hai della scena artistica emergente in Italia? Come riesci a sostenerti?
Ho la fortuna di essere circondato da amici e persone pazienti. Riguardo la scena emergente italiana, per quanto dovrei rientrarci anch’io, non credo di poter dare un chiaro giudizio complessivo. Anche se molte delle questioni che abbiamo toccato in questa conversazione hanno pienamente a che fare con le sue problematiche. Mi sento di dire solo di provare a riportare lo sguardo sui gesti semplici e non facili, di non lasciarsi chiudere in tematiche, ma piuttosto interromperle e resistere a vuote e distraenti prospettive autoaffermative, già consumate nel nascere esattamente perché motivo centrale nei meccanismi attuali.
Saverio Verini
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #73
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