Corrado Cagli e il sistema dell’arte durante il fascismo. La riflessione di Raffaele Bedarida
Fino al 27 gennaio 2024, al CIMA di New York si visita la mostra sulla vicenda artistica di Corrado Cagli. Dopo la replica di Valery Decola alla recensione pubblicata su Artribune, che accostava l’artista marchigiano al fascismo, diamo spazio all’intervento del curatore della mostra newyorkese
Continua sulla piattaforma di Artribune il dibattito sollevato dalla mostra che il CIMA (Center for Italian Modern Art) di New York ha dedicato a Corrado Cagli (Ancona, 1910 – Roma, 1976) e alla sua vicenda artistica e umana (c’è ancora tempo per visitarla, fino al 27 gennaio 2024). Lo scorso dicembre, Artribune pubblicava la recensione titolata “La mostra newyorkese di Corrado Cagli, artista ebreo che fu fascista”, cui ha fatto seguito, di recente, la replica di Valery Decola, pronipote dell’artista marchigiano, che prende le distanze dal collegamento tra Cagli e il fascismo.
Ora la parola spetta a Raffaele Bedarida, curatore dell’esposizione newyorkese.
Raffaele Bedarida su Corrado Cagli e il fascismo
Partiamo dai fatti (documentati e stranoti): non c’è dubbio che Cagli abbia lavorato per il regime fascista e abbia contribuito con le sue opere a definirne il linguaggio visivo, avendo rappresentato la Marcia su Roma, la Battaglia del grano, i Preludi di guerra e Mussolini a cavallo. Allo stesso tempo il suo approccio a questi temi (e ad altri meno illustrativi della retorica del fascismo) non corrispondeva, anzi urtava gli ambienti più conservatori del partito per il suo internazionalismo e sperimentalismo stilistico, oltre che per la persistenza di temi ebraici e omoerotici: venne dunque attaccato e censurato in casi famosi che segnarono momenti di svolta reazionaria della politica culturale fascista. Ma soprattutto bisogna ricordare che Cagli fu esiliato dall’Italia fascista, combatté contro il fascismo rischiando la vita e affrontò nel suo lavoro il fallimento e l’assurdità di quella stessa retorica che egli stesso aveva contribuito a costruire. Ed è su quest’ultimo aspetto e periodo che si concentra la mostra del CIMA, a sua volta ispirata al libro che ho pubblicato con Donzelli nel 2018.
Il sistema dell’arte durante il fascismo
Il punto, quindi, non è decidere (e giudicare) se e quanto Cagli fosse fascista, se lo fosse per necessità di lavorare o per convinzione. Le domande che la mostra vuole sollevare e che credo siano utili per tutti noi oggi, sono altre.
Cagli e la sua generazione crescono sotto il regime (ha 12 anni quando Mussolini marcia su Roma) e diventano artisti muovendosi all’interno del sistema dell’arte fascista come sistema dato e consolidato: in che modo quel sistema riesce a rendere Cagli complice e partecipe, in che modo l’artista matura una distanza critica, che strategie sviluppa per decostruire e attaccare quell’ideologia (ricordiamoci che quando Cagli entra in aperta opposizione al regime ha 28 anni)?
Dopo aver lottato fisicamente contro il fascismo (lo sbarco in Normandia non è stato una passeggiata!) e aver svolto un percorso intellettuale di critica all’ideologia fascista per quasi dieci anni (un periodo più lungo della sua carriera sotto il fascismo), Cagli rientra in Italia nel dopoguerra con un lavoro difficile in cui chiede agli italiani, sé stesso compreso, di fare i conti con il passato recente, con le sue contraddizioni e problemi irrisolti, in un momento in cui si vuole solo dimenticare e ricostruire. Tocca dunque un tasto sensibilissimo, tanto che viene contestato (come l’ebreo omosessuale che fu fascista) e la sua mostra nel 1947 finisce a cazzotti. La domanda, quindi, è: perché per Lucio Fontana non succede nulla di simile sebbene avesse celebrato l’espansione coloniale fascista (1936), avesse decorato il sacrario dei martiri fascisti (1939) e non avesse partecipato a nessuna forma di resistenza?
Il retaggio culturale e politico del fascismo
Il punto, dunque, non è tanto giudicare Cagli (o Fontana) ma chiedersi quali tasti della memoria e dell’identità italiana il loro lavoro sia in grado di toccare oggi. Perché reagiamo in modo così simile al 1947 in Italia? Cosa voleva dire una reazione del genere nel dopoguerra e ora? Mentre del complesso percorso tracciato dalla mostra, il New York Times ha ritenuto giusto mettere in evidenza come Cagli fosse “an artist shattering boundaries in pursuit of freedom”, Artribune ha preferito chiamarlo “l’artista ebreo che fu fascista”. Entrambe le reazioni sono legittime ed entrambe parlano al proprio pubblico di due cose: della complessità del lavoro di Cagli, difficilmente riducibile a un unico livello di lettura; e del rapporto decisamente strabico che abbiamo oggi con il retaggio culturale e politico del fascismo.
Raffaele Bedarida
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati