La grande mostra di Giorgio Morandi a Milano (recensione senza immagini causa SIAE)

La retrospettiva a Palazzo Reale indaga la sua vasta produzione. Nessuna immagine delle opere e della mostra accompagna questo articolo, per via delle politiche che la SIAE sceglie di seguire con editori e uffici stampa

Metafisica domestica, crepuscolare, lungo la linea di un tempo caduco, che sfugge alle cronologie e insieme si ancora al reale. Il senso di Giorgio Morandi (Bologna, 1890-1964) per la malinconia: le mezze tinte, il silenzio dell’ascolto e della meditazione, l’indefinitezza delle stagioni, le apparizioni eteree, le forme morbide quanto solide, la tensione tra impermanenza ed eternità. Trasfusi nel colore, i ritagli di luce e le porzioni d’ombra delimitano lo spazio – infinito – tra le fragili geometrie del quotidiano. E tra ciò che l’occhio vede e ciò che mai del tutto potrà afferrare. 
La pittura di Morandi è ricostruzione del mondo, nelle sue fondamenta invisibili, a partire da cellule minute di realtà, la cui trasfigurazione dolce è frutto di un processo inesauribile. Terra impareggiabile, la sua, che non trova eguali nella produzione novecentesca e che non ha scuola, appartenenza, obbedienza, ricalco. E che pure rivela radici profonde e variegate, attraverso secoli di storia dell’arte: dalla sospensione meridiana che eternizza gli oggetti di de Chirico o Carrá, alla visione costruttiva, verticale di Cézanne; dalla compostezza chiara, matematica e simbolica di Piero della Francesca, alle composizioni essenziali di Chardin, accordi d’ombre e lumeggiature, sfaldati nella sommessa sensualità di cose qualunque.

La mostra a Palazzo Reale

La retrospettiva ospitata a Palazzo Reale di Milano, a trent’anni dall’ultima grande mostra cittadina dedicata al maestro bolognese, ha il merito di accompagnare il visitatore lungo 50 anni di produzione artistica, grazie a un corpus di 150 opere suddivise per temi e per periodi. Curata da Maria Cristina Bandera, Direttrice della fiorentina Fondazione di Studi di Storia dell’Arte Roberto Longhi, è promossa dal Comune di Milano e prodotta da Civita Mostre e Musei con 24 ORE Cultura, in collaborazione con il Museo Morandi si Bologna. Si susseguono, sala dopo sala, in una ragionata e articolata promenade storico-critica, frammenti di un’inconfondibile materia iconografica: la restituzione pittorica, prodigiosa, di quei piccoli set allestiti e osservati nella quiete del suo studio, in quella casa natia di via Fondazza, a Bologna, da cui mai l’artista si allontanò. E che l’obiettivo di straordinari fotografi – su tutti Luigi Ghirri e Gianni Berengo Gardin – consegnò alla storia, facendone prezioso documento.
Così le iconiche bottiglie, i barattoli, le scatole di latta, i vasi di fiori, l’imbuto, la brocca, la zuccheriera, apparecchiati come silhouette in dissolvenza, sono oggetti sempiterni eppure quasi senza peso, per sempre sul punto di sparire. Perduti, defunzionalizzati, disincarnati, svuotati. Masserizie intime, che però guardano all’universale, come elementi di una lingua dell’origine, il cui suono appare arcaico, indecifrato. E tuttavia familiare. Cesare Brandi, nella sua Teoria generale della critica (1947), scriveva: “Una bottiglia vuota e polverosa, come nel caso di Morandi, viene isolata e proposta in un altro contesto, in cui non è d’uso, in cui anzi c’è straniamento dall’uso: valgono solo relazioni cromatiche, luminose, plastiche. La bottiglia resta bottiglia […] ma folgorata, inutilizzata, che è quanto dire neutralizzata, sospesa dalla sua utensilità e quindi dal significato che vi corrisponde”.

Morandi 1890 1964 Palazzo Reale Milano 2023 24 2 La grande mostra di Giorgio Morandi a Milano (recensione senza immagini causa SIAE)
Morandi 1890-1964, Palazzo Reale, Milano, 2023-24 – exhibion view, ambiente immersivo

I paesaggi morandiani

Torna alla mente una celebre frase di Cézanne, a proposito di questo incantesimo che sovrappone l’assenza e la contingenza, l’ossatura del mondo e la sua pelle mutevole: “Tutto quello che vediamo si dilegua. La natura è sempre la stessa, ma nulla resta di essa, di ciò che appare. La nostra arte deve dare il brivido della sua durata, deve farcela gustare eterna“. Natura che in Morandi si cristallizza nelle sequenze mai identiche di oggetti casalinghi, ma che è anche paesaggio, con la stessa ossessione – o meglio ‘affezione’ – per un luogo sempre uguale, da continuare a scavare, a studiare, a scoprire e ricomporre, tra infinite variazioni che elevano il gesto della ripetizione alla dimensione della preghiera. Le colline di Grizzana, tra gli appennini bolognesi, erano la sua montagna di Sainte-Victoire. Qui la famiglia Morandi trascorreva l’estate, fin dal 1913, prima ospite di amici, poi residente presso una pensione, e infine dal ’59 nella villetta che era riuscita a costruire, oggi divenuta casa-museo. Diceva Morandi: “Andando su verso Grizzana, a un certo punto c’è una curva e lì quando si esce dalla curva, c’è il più bel paesaggio del mondo”. 
A Milano sono molti i paesaggi esposti, raccolti in particolare nelle sezioni relative agli anni ’30 e ’40, dove spiccano capolavori come quello della Gam di Torino, del 1935, dolcemente risolto in un gioco quasi d’astrazione, nel tocco vellutato dei verdi tenui, dei rosa cipria, delle venature ocra e dei rettangoli di bianco crema. O come nella tela di Palazzo Pitti, del ’42, in cui la purezza atmosferica, il chiarore diffuso e le prospettive appiattite fino a un orizzonte altissimo, governano una griglia di verdi e di bianchi, raccordati da minime porzioni di gialli e beige.
E sono spesso panorami senza cielo, o quasi. A dominare non è la profondità prospettica, geometrica o aerea, ma l’immanenza dei volumi, dei corpi ancorati al mondo e all’occhio che scruta. Lo spazio e le cose si compenetrano, con lo stesso slancio di un verso poetico, scivolandosi addosso. Osservati da lontano, costruiti nell’armonia degli accordi tonali e nella sintesi dei piani, questi scorci vivono nella pervasività assoluta delle luci e nella semplicità di forme ridotte all’osso, come masse geometriche in emersione. Case, alberi, scampoli di campagna, non sono che triangoli, quadrati, campiture morbide o solidi giustapposti. Di nuovo sulle orme di Cézanne, che diceva: “Bisogna trattare la natura secondo il cilindro, la sfera e il cono“. E più indietro, giungendo fino a Galileo e alla sua definizione di universo: “Egli è scritto in lingua matematica, e i caratteri son triangoli, cerchi ed altre figure geometriche, senza i quali mezzi è impossibile a intenderne umanamente parola; senza questi è un aggirarsi vanamente per un oscuro labirinto“.

Le opere esposte

Tra le incantevoli nature morte, si alternano quelle in cui i soggetti sono sagome quasi grafiche, allungate, in dissolvenza, dai contorni vibranti ed incerti, come la tela della Fondazione Longhi del ’35; quelle che vedono gli oggetti serrati, accostati e compattati, fino ad evocare i contorni di immaginifiche fortezze; e ancora le sfide all’equilibrio e alla resistenza lungo i bordi, quando barattoli e bottiglie stanno sul limite del tavolo oppure perdono ancoraggio, galleggiando in vuoti concettuali (le tele di Winterthur, del ’55, del Museo Morandi, del ’56, o della collezione Olgiati, del ’58). 
Diverse le sezioni a tema, per offrire una panoramica ampia e dettagliata della ricerca morandiana. Dai vasi di fiori, topos mai accantonato, in cui si concentra tutta la sua delicatezza di tocco e di sguardo, al focus sulle conchiglie, avviato nel ’21, dietro ispirazione del Conus Marmoreus di Rembrandt, e ripreso negli anni della guerra: i gusci vuoti, ruvidi, scolpiti da protuberanze e incisioni, sono corpi straniati, testimoni di un tempo tragico ma inafferrabile. E ancora la serie di acquerelli, sperimentata saltuariamente e intensificatasi negli ultimi otto anni di vita, con circa 250 produzioni: distillati di pura luce e di levità pulviscolare, in certi casi evaporati in un sussurro d’astrazione. Infine la sala sulle incisioni, attività in cui Morandi si distinse con opere di altissimo valore, qui rappresentate da un unico exemplum: la Grande natura morta con lampada a destra, del 1928, e la tela del MART che ne riprende il soggetto. Esposte anche la matrice e le otto prove di stampa, con diverse progressive modifiche, indicate dall’artista stesso a Lamberto Vitali, suo grande amico, sostenitore e collezionista. 



Il tempo e la presenza

Morandi 1890-1964, Palazzo Reale, Milano, 2023-24. Visitatori in mostra
Morandi 1890-1964, Palazzo Reale, Milano, 2023-24. Visitatori in mostra

Centrale, nella ricerca di Morandi, resta la questione del tempo, intimamente connessa a quell’idea del neutro e alla doppia natura del soggetto trasposto in pittura. Ogni finestra pittorica – in cui gli oggetti sono restituiti con tutta l’evanescenza di puri rapporti cromatici e luminosi – è un luogo non di cronaca, ma di verità intuita, dispiegata. Un approccio che si fa chiaro già tra la fine degli anni dieci e i primi anni venti, dopo gli esordi metafisici subito abbandonati, e che si sarebbe consolidato via via, con crescente consapevolezza e complessità.  È un sentimento delle cose, una maniera di sentirle e di farle sentire, catturando lo sguardo con delicatezza immensa, attraverso l’arte del togliere, del sospendere, del sintetizzare: una “abolizione“, come avrebbe detto Longhi “del soggetto invadente che parte in quarta e si divora l’opera e l’osservatore. Oggetti inutili, paesaggi inameni, fiori di stagione, sono pretesti più che sufficienti per esprimersi “in forma”; e non si esprime, si sa bene, che il sentimento“. 
È un pretesto, la cosa. Colta nel suo consumarsi, impolverarsi, divenendo reperto e ricordo, essa è capace di rivelare – all’occhio allenato – un fondamento immateriale, una verità essenziale. L’utopico rapporto con il tutto e con l’unità, dentro a una temporalità intesa come continuum indiviso. Si tratta di intravedere, insieme all’esistente e al di là, un tempo e uno spazio ulteriori, che non appartengono più ai calendari, ai significati umani, alle distanze e alle differenze, alle lancette d’orologio, al possesso e alle connotazioni emotive, ai luoghi abitati e alle biografie. Ciò che passa e ciò che resta, in quanto dimensioni inscindibili della presenza. 

Artista schivo, poco mondano, restio a rilasciare interviste, Morandi diede occasione di ascoltare la sua voce, pubblicamente, in occasione di una registrazione per The Voice of America: il 13 luglio del 1855 ricevette nel suo atelier Peppino Gino Mangiavite, insegnante alla Columbia University, incaricato di incontrare alcuni grandi artisti europei per dei servizi destinati all’emittente radiofonica. La trasmissione andò in onda nel 1957. Un documento importante, che della visione di Morandi restituisce uno spaccato, attraverso la sua viva voce: “Il compito educativo possibile alle arti figurative ritengo sia, particolarmente nel tempo presente, quello di comunicare le immagini e i sentimenti che il mondo visibile suscita in noi. Ciò che noi vediamo ritengo sia creazione, invenzione dell’artista, qualora egli sia in capace di far cadere quei diaframmi, cioè quelle immagini convenzionali che si frappongono tra lui e le cose. (…) Sono infatti sentimenti che non hanno alcun rapporto o ne hanno uno molto indiretto con gli affetti e con gli interessi quotidiani, in quanto sono determinati appunto della forma, dal colore, dallo spazio e dalla luce. (…) La Pittura astratta ha dato opere importanti, se noi pensiamo, ad esempio, per fare un solo nome a Paul Klee, al primo cubismo, Braque, Picasso. Per me non vi è nulla di astratto; però ritengo che non vi sia nulla di più surreale e nulla di più astratto del reale“.
Partire dunque dall’oggetto comune per rimanervi, coraggiosamente. Non allineandosi all’imperativo stilistico dell’astrazione, così determinante nella prima metà del secolo scorso. E nel restarvi, però, imparare a farne materia d’infinito, occasione rivelatoria. Ogni filtro cade, portando con sé sovrastrutture, visioni codificate, significati noti, figli della logica e dell’abitudine. La pittura come esperienza di comprensione e rigenerazione, puntando al cuore della cosa, alla sua prima voce, alla sua prima luce. Nell’esercizio di una dualità feconda, di una scrittura sempre incompiuta.

Helga Marsala

Nota – Come premesso nel sommario di questo articolo, le immagini di opere e allestimenti, per volontà della SIAE, possono essere utilizzate dietro versamento dei diritti d’autore da parte delle singole testate. Gli uffici stampa non possono fornire, come di consueto, materiale liberamente pubblicabile. Ci riserviamo di approfondire meglio la questione in un successivo articolo.

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Helga Marsala

Helga Marsala

Helga Marsala è critica d’arte, editorialista culturale e curatrice. Ha insegnato all’Accademia di Belle Arti di Palermo e di Roma (dove è stata anche responsabile dell’ufficio comunicazione). Collaboratrice da vent’anni anni di testate nazionali di settore, ha lavorato a lungo,…

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