Femminilità e coscienza di genere. Intervista all’artista Paola Gandolfi
Protagonista di una mostra alla Galleria Alessandro Bagnai di Firenze, la pittrice e videoartista Paola Gandolfi lavora da quarant’anni con le tematiche del femminismo e delle storture relazionali tra uomo e donna
La recente mostra personale alla Galleria Alessandro Bagnai di Firenze, è stata l’occasione per riprendere con Paola Gandolfi (Roma, 1949) il filo di una riflessione condivisa sul suo lavoro e la sua visione del mondo. Al centro della sua pratica artistica, dipinti che affrontano le questioni di genere e i rapporti uomo-donna.
I tuoi lavori parlano sempre di qualcosa in bilico tra ciò che è accaduto e ciò che sta per accadere. A dispetto di immagini ieratiche e risolte, rivelano uno scarto temporale tra il prima e il dopo, e il passato diventa presente che risolve antichi conflitti. Che cos’è per te il Tempo?
Nel video In tempo per modifiche temporali (2016) cerco di manometterlo: entro trepidante nei luoghi dei miei sei anni e con l’aiuto del computer trasformo quello che non avrei potuto fare o affermare allora.
In Chiamata urbana urgente (2022) mi intrometto nel tempo dei miei dieci anni, mi mostro come sono e mi confronto con la bambina che ero, azzerando il tempo che c’è tra noi due, tra me e me.
Concludo il video portando nel mio presente la bambina di allora e, come una prestigiatrice incallita, dopo aver compiuto il prodigio faccio l’inchino al pubblico che guarda.
È come se il tempo fosse di creta e con le mie mani volessi modellarlo a mio piacere.
Fatico molto a concepire il tempo dell’orologio, preferisco percorrere quello dell’inconscio, fatto di frammenti e scivolate in tempi e luoghi lontani dove mi sembra di trascorrere anni e invece sono passati pochi minuti.
Nei video il messaggio è immediato, forte, a volte violento. Nella pittura arriva più lentamente, non meno potente ma come se il dipinto, attraverso le tue donne, si prendesse un altro tempo per arrivare al fruitore.
Il dialogo tra video e pittura nel mio lavoro è costante: il quadro è il frame migliore del mio film interno, il video è come se srotolassi il mio processo mentale fatto di frame.
Il pensiero femminile procede in maniera diversa da quello maschile, riconosce connessioni e informazioni differenti per poi tenerle assieme, invece che separarle, muovendosi dentro percorsi sotterranei, divagando, per uscire senza perdere il filo del discorso.
I miei video derivano dai quadri o dal lavoro attorno ai quadri, svelando qualcosa che in essi avevo nascosto. Durano il tempo di una canzone, di una poesia. L’elaborazione ulteriore avviene nella mente dello spettatore.
Incontrare il significato del quadro richiede un tempo maggiore rispetto al video, ma se lo spettatore è una donna, ho notato, immediatamente comprende che il senso è affine alla sua esperienza: è più facile per lei accedere a un’area psichica preverbale, perché è più vicina all’antica comunicazione con la madre.
Nella tua pittura la figura femminile, sempre centrale, è portatrice di un’identità che emerge lentamente. Di fronte a una composizione regolare e spesso accattivante si rivela un contenuto mai conciliato, dove il danno alla fine prende il sopravvento attraverso piccoli particolari all’apparenza insignificanti: uno sguardo, una sbavatura nell’acconciatura, una postura irregolare.
È importante per me rompere gli stereotipi. Non tutti se ne accorgono subito perché cerco di creare una trappola di colori e forme che attiri il fruitore tranquillizzandolo e abbassando le sue difese, quelle che tutti noi abbiamo al primo impatto con un quadro, e lo renda pronto a ricevere il segnale che voglio dare. In uno degli ultimi quadri, Paco Paco, ho dipinto una donna con un vestito fatto di piastre di metallo riflettenti (un vero specchietto per le allodole). Il disegno originale del vestito è di Paco Rabanne. La donna ha una pettinatura in stile con il vestito, a prima vista del tutto aderente al design anni Sessanta; poi, avvicinandosi, si nota il suo sguardo furioso, una mano stretta in un pugno, l’altra atteggiata in posizione di combattimento Kung Fu, e infine una gamba pronta a lanciare un calcio solenne.
Non ho alcuna intenzione di malmenare lo spettatore, ma ho voluto ragionare sul tema dell’aggressività femminile, forzatamente repressa nei secoli.
Ho imparato dalla mia maestra di vita, Francesca Molfino, che è inevitabile il rovesciamento dell’energia aggressiva in energia auto-aggressiva: l’aggressività non può essere eliminata con una spolverata di piumino; se non siamo coscienti di quanta ne immagazziniamo durante la nostra vita di donne, essa può trasformarsi in un animale incattivito contro noi stesse.
Hai sempre affrontato i temi di genere e le storture relazionali tra uomo e donna senza ricorrere alla figura maschile: le tue donne erano autosufficienti anche in questo. Poi nel tuo ultimo progetto, “Reportage”, compare per la prima volta un maschio, e mi sembra che la sua presenza acceleri l’inquietudine di questo progetto.
La scelta radicale di dipingere o fare video esclusivamente dedicati alla donna, in tutti i miei quaranta anni di lavoro (a eccezione di una o due trasgressioni), l’ho considerata necessaria per la costruzione del mio sé, per la rivalutazione, la conoscenza e la protezione del territorio psichico della donna.
Reportage, la mia ultima mostra esposta nella galleria di Alessandro Bagnai di Firenze, è composta di nove grandi quadri poggiati in fila a terra. Qui per la prima volta ho dovuto mettere in campo la figura maschile. Alessandro mi ha incoraggiata molto nell’affrontare il tema della mostra.
Il progetto era pronto già dal 1995 in formato fotografico e solo ora me la sono sentita di sviscerare, in pittura, l’incontro patologico tra un uomo e una donna. Nei vari mesi di costruzione, ogni tre giorni veniva e viene uccisa una donna dal suo compagno d’amore.
Il percorso inizia con una piacevole illusione di danza tra uomo e donna, che lentamente rivela la sua natura di lotta, ancora quieta e piena di speranza da parte della donna, ma che si corrompe fino ad arrivare al male estremo.
Ho dipinto l’uomo anche con ironia, a volte senza testa, o con una parte del sé femminilizzata, oppure ho spostato la sua testa sul corpo della donna formulando la domanda: “Per una volta vuoi metterti al posto mio e vedere cosa si prova?”
Un rapporto morboso, fatto di frasi come: “lo faccio per il tuo bene”, “ti proteggo io”, “non guardare”, “non ti faccio guardare”, “non ti faccio respirare”.
Perché la pittura? Ho l’impressione che a tenerti legata alla pratica pittorica siano le tue modalità: è la tua ricerca a sostenere la pittura e non il contrario.
Quando ho iniziato a dipingere, negli anni Ottanta, non avevo alcuna esperienza della tecnica pittorica, era una provocazione ancora molto concettuale.
Venivo dall’Accademia di Bologna dove era assolutamente vietato dipingere, avevo esperienza solo di installazioni.
Sono stati anni di sperimentazione, dove spesso il colore colava assieme alle immagini che avevo appena dipinto, ma anche di molte frustrazioni e grandi difficoltà con galleristi meravigliosi, che in tutta la loro vita avevano esposto al massimo una o due donne artiste.
Andando avanti nel tempo ho acquisito un mio metodo, una sicurezza di esecuzione, ma ho sempre avuto la certezza che il mio obiettivo principale fosse quello di trovare un linguaggio pittorico mio e tematiche che appartenessero alle strutture profonde della donna.
Una posizione netta e senza sconti su un problema di genere che riguarda la società ma anche il mondo dell’arte. Che ruolo ha avuto l’esperienza storica del femminismo sulla tua poetica?
È stata la base che ha permesso a noi tutte di capire il pensiero della differenza – Carla Lonzi, Luce Irigaray –, di sentire che i nostri passi e la nostra storia erano e sono lastricati da pietre pesanti.
Come scrive Genevieve Fraisse nel suo libro Il mondo è sessuato, “le donne sono spesso situate nel contrattempo, come se non fossimo mai nel momento buono, ma sempre in ritardo o in anticipo e così squalificate come soggetti della storia”.
Sono stati molto importanti per me i movimenti americani legati all’arte, prima quelli degli anni Sessanta, poi i primi degli anni Novanta, li ho seguiti con grande attenzione specialmente nel periodo in cui ho lavorato con la galleria Monique Knowlton a New York, dal 1995 fino al 2000. Credo si veda, in tutti i miei quadri e video dedicati alla figura della madre, che molto importante per il mio lavoro è la filosofa Rosi Braidotti.
Nella tua pittura il colore ha un ruolo determinante. Hai scelto un figurativo deciso con colori spesso acidi e dirompenti
I colori che amo sono quelli di alcuni film del regista David Lynch, vicini alle allucinazioni, ai sogni a occhi aperti. Il colore ha un significato preciso per me: uso il giallo forte quando voglio far luce su un concetto, il tono di grigio se la situazione del quadro è buia e oscura.
Il figurativo a cui sono approdata dopo tanto lavoro di pittura è lo stretto necessario, per chi guarda, per stabilire con il mio quadro un contatto che gli permetta di abbandonare momentaneamente il pensiero razionale.
Che rapporto hai con le nuove generazioni? Intravedi una continuità tra la tua ricerca e la loro?
Ho un ottimo rapporto con le nuove generazioni di artiste e artisti, mi amano e mi comprendono al volo. Ma a questo punto giro la domanda a te che hai il polso della situazione.
Sei andata avanti per decenni senza cedere alle lusinghe del mercato. Forse è proprio questo il legame più profondo con le nuove generazioni: l’insegnamento della coerenza e di una poetica mai asservita. Una scelta che nell’immediato si paga, ma che col tempo ripaga.
Claudio Libero Pisano
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