Pittura senza confini. Intervista all’artista Masakazu Miyanaga
È possibile unire l’estetica minimalista giapponese e la pittura gotica europea su fondo oro? Il pittore nipponico (e trapiantato in Polonia) Masakazu Miyanaga ci riesce, creando opere eleganti e riconoscibili
Un giapponese in Polonia sospeso tra Estremo Oriente ed… “Estremo Occidente”. Dopo quasi trent’anni trascorsi in terra straniera c’è il rischio di confondere le acque e non sapere più a quale cultura si appartiene. Non è successo a Masakazu Miyanaga (Oita, 1970) che ha ormai messo radici nel Paese sulla Vistola. Metà e metà, come il titolo della sua ultima personale tenutasi in autunno presso il Museo dell’Arte e della Tecnica Giapponese Manggha a Cracovia. Miyanaga profonde oro 24 carati nei suoi dipinti irriverenti, popolati da cani in gualdrappa e preziosi come tavole del gotico senese. Il pittore giapponese si destreggia tra due tradizioni figurative distanti loro senza mai dare la sensazione di tenere il piede in due scarpe. A conti fatti lo “sfarzo minimalista” nei suoi lavori fa di lui un profilo interessante per una galleria privata a qualsiasi latitudine.
Intervista a Masakazu Miyanaga
Come si è ritrovato a vivere in Polonia?
Un progetto di volontariato, il Japan Overseas Cooperation Volunteers (JOVC), mi ha portato a Myślenice, una cittadina nel sud della Polonia dove ho organizzato dei laboratori artistici prima di riprendere gli studi a Cracovia. Ma la cultura polacca già mi affascinava da molto tempo, dopo aver scoperto in Giappone i grandi cineasti polacchi come Wajda e Polański.
Ha riscontrato grosse differenze nell’approccio all’insegnamento artistico tra Occidente e Oriente?
Ho studiato pittura a Fukuoka e Tsukuba, mentre all’Accademia di belle arti di Cracovia ho scelto un percorso in conservazione e restauro dei beni culturali. Da questo punto di vista non c’è stata alcuna sovrapposizione nelle discipline a cui mi sono avvicinato nel corso degli anni. In generale ho notato che in Giappone i docenti sono molto più vicini agli studenti. Non è una questione di distanza interpersonale. Non una volta siamo andati a bere un bicchiere insieme ai nostri professori.
È in contatto con gli altri artisti giapponesi residenti in Polonia?
In verità non siamo molti. Anche se Kōji Kamoji vive a Varsavia e appartiene a una generazione diversa dalla mia [Kamoji è nato a Tokyo nel 1935 ndr], ha seguito con interesse il mio percorso artistico in Polonia. Non ci vediamo spesso. L’ultima volta ci siamo incontrati nel 2018 quando è venuto a Cracovia per una retrospettiva sulla sua opera allestita presso il Museo Manggha, fondato dallo stesso Wajda, con il quale ho avuto la fortuna e l’onore di collaborare nel corso degli anni.
Che cosa c’è di veramente nipponico nei suoi ultimi lavori realizzati a tempera su legno?
Innanzitutto un certo minimalismo nella composizione, nonostante le figure dei miei dipinti si staglino spesso su fondo oro. Poi ci sono numerosi dettagli che quasi sempre sfuggono all’occhio occidentale. A volte i miei cani hanno in testa un cappuccio di quelli indossati dalla classe dei samurai nel mio paese. E non mi riferisco all’armatura in questo caso.
La pittura senza confini di Masakazu Miyanaga
In alcune composizioni ho notato che ci sono soltanto fiori e uccelli come come nei dipinti e nelle stampe kachō-ga.
È vero, anche se sul piano stilistico mi rifaccio alla scuola Rinpa, uno stile pittorico giapponese del XVII secolo. Anche lì non mancano esempi di motivi animali e vegetali su foglia d’oro che spesso ricoprono i byōbu, ossia i paraventi pieghevoli tipici di questa scuola. A volte scelgo gli uccelli e ultimamente mi è capitato di dipingere un rinoceronte, ma la maggior parte delle mie ultime opere ha come soggetto i cani. I miei ultimi lavori sono tutti in tempera. Eppure sono affascinato anche dai grandi nomi della pittura ad olio fiamminga.
Perché dunque i cani e non altri animali?
Il cane è un simbolo di fedeltà e attaccamento sia nella cultura orientale che in quella occidentale. Spesso vengono rappresentati ai piedi dei padroni. In Giappone ad esempio abbiamo i koimanu delle sculture, a metà tra un leone e un cane, che svolgono una funzione apotropaica. A volte li si trova all’ingresso dei santuari shintoisti. Spesso raffiguro cani da caccia. Anche se non sono dei veri e propri autoritratti, sono slanciati come me [ride ndr]. A volte scelgo anche cani da compagnia come i corgi.
L’utilizzo dell’oro ha una funzione simbolica nei suoi dipinti?
Sì, ma soltanto in parte. Nell’arte religiosa occidentale l’oro ha una valenza spirituale che rimanda alla luce divina. In Giappone la lamina d’oro non viene impiegata per caricare di spiritualità lo spazio della raffigurazione, tutt’altro. Nella cultura del mio Paese d’origine la sua importanza come materiale è data dal fatto che “purifica” su un piano formale la composizione rendendola più neutra.
In che senso allora va intesa questa purificazione?
L’oro nei miei lavori più recenti non rimanda né al divino, come nelle icone bizantine o nella pittura gotica, né tantomeno al terreno. La collocazione delle figure resta sospesa tra due dimensioni grazie alle proprietà materiali dell’oro, che riflette ogni tentativo di definire lo spazio del dipinto. Detto questo, l’interpretazione dei miei lavori la lascio agli osservatori.
Giuseppe Sedia
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