La nostra storia. La provincia italiana nella mostra di Eugenio Tibaldi a Napoli
Una mostra che indaga nei tessuti culturali dell’Italia interna. L’artista trasporta il pubblico negli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso, quando nel territorio morbido e cloroformico della provincia italiana si sognava la casa al mare o la villa in campagna
Ogni progetto di Eugenio Tibaldi è definibile come un capolavoro che sedimenta e supera con intelligenza il capolavoro precedente fino a farci sentire la potenza del pensiero, la eco chiara di una mente che ricerca, che investiga, che attraversa il presente, che rilegge il tempo, che pone domande su domande su domande. Basta guardare le straordinarie Architetture minime presentate al MAXXI (Roma, 2018), Il giardino abusivo realizzato con After Leonardo al Museo del Novecento (Milano, 2019), l’Habitat #1 (2020) organizzato alla Galleria Nazionale, le Architetture dell’isolamento (2021) elaborate per la Tenuta dello Scompiglio, il Temporary Landscape (2021), il luminoso dispositivo del PAV di Torino o l’installazione sonora Marginal Carillons (2022) dello spazio BASE di Milano, per capire quale e quanta maturità abbia raggiunto Tibaldi negli ultimi anni.
Legato da sempre alle marginalità del mondo e alle varie discipline che tessono la storia delle idee (storia di lateralità, di abbandoni, di fatti umbratili, di accenni e grumi e brusii) Tibaldi affonda l’occhio laddove c’è sempre una narrazione silenziosa da far brillare con interventi straordinari, capaci di trasformare il pensiero in un dispositivo estetico ad ampio raggio di conoscenza, basato ora sulle varie economie dei territori “inferiori” o dei sobborghi silenziosi che si tessono attorno alle megalopoli globali, ora alle periferie d’Italia, alla provincia più esattamente, dove la vita sembra a volte essersi fermata (deformata) e dove il sole screpola senza sosta ogni sbiadito sorriso.
A quest’ultimo versante, quello appunto della nostra provincia, sono legati progetti e pensieri realizzati dall’artista a intervalli regolari (Red Verona nel 2015, Più là che Abruzzi nel 2019, Atopos nel 2023 ne sono alcuni) e che appaiono oggi ampiamente illustrati – e con tutti i disinganni, le illusioni, i disagi, gli strascichi – nella sua ultima impareggiabile personale visitabile da qualche settimana negli spazi della galleria Casa Di Marino, dove l’artista riformula e amplifica il brillante progetto context-specific che ha chiamato La forma spezzata, un ampio lavoro prodotto da Fondazione Pietro e Alberto Rossini consistente in una fabula d’artista (Allemandi, 2023), un’azione performativa, un’esposizione, un talk e alcuni laboratori didattici.
Why a Fable?, la settima personale di Tibaldi da Umberto Di Marino, è infatti un’atmosfera che fa vibrare lo sguardo e che, se da una parte dilata nello spazio espositivo la meravigliosa fiaba pubblicata a settembre dello scorso anno, dall’altra presenta uno scenario unico e prezioso: e per giunta con una scrittura narrativa ariosa, fatta di tante microstorie, di dettagli, di interstizi, di sofisticati indizi che si incastrano potentemente tra loro.
La mostra di Tibaldi a Napoli
Il racconto di questo nuovo viaggio firmato da Eugenio Tibaldi è meravigliosamente (direi anche grandiosamente) amaro: trasporta il pubblico negli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso, quando nel territorio morbido e cloroformico della provincia italiana si sognava la casa al mare o la villa in campagna, quando si facevano cambiali per avere una Volvo o una Mercedez, quando le Uno Turbo Giannini della Fiat avevano impianti audio che prendevano tutto il bagagliaio con subwoofer che facevano tremare la carrozzeria e l’asfalto, quando si ascoltavano Luca Carboni o Eros Ramazzotti, quando si sognavano le Ragazze fast food di Drive In (1983-1988) o i piccanti stripteases delle ragazze Portafortuna di Colpo Grosso (1987-1992), quando si guardavano i film di Diego Abbatantuono e di Bud Spencer, quando si gustava il demenziale Cacao Meravigliao – «lo sponsorao» – della trasmissione televisiva Indietro tutta! (1987-1988) e si rideva con le Ragazze Coccodè, quando si era inconsapevolmente massaggiati dalle teenager di Non è la Rai (1991-1995), quando la political correctness non era stata ancora disegnata a tavolino da una manciata di politicanti demenziali per dar luogo a una corrente d’opinione purtroppo sempre più vuota e fatua (Rita Fresu ha anche parlato di “conformismo linguistico e di tirannia ideologica”).
Accanto a otto sorprendenti e raffinate tavole del 2023, veri e propri rebus visivi i cui titoli offrono una precisa scansione ritmica dell’esposizione – Capitolo I, IL PAESE PIU’ BELLO DEL MONDO, Capitolo II, IL RITROVAMENTO, Capitolo III, LA NUOVA FEDE CHE UNÌ TUTTE LE GENTI, Capitolo IV, CHE NULLA VADA PERDUTO, Capitolo V, LA CONSULENZA, Capitolo VI, LA SENTENZA, Capitolo VII, VISSERO TUTTI FELICI E CONTENTI e una sezione aggiuntiva, La forma, realizzata in biro e matita su carta e con misure diverse, 91x44cm rispetto alle altre (tutte 120x85cm) – troviamo una serie di surmolotti che saltellano lungo i battiscopa e che si aggrappano furtivi alle pareti della galleria. Lo spazio è popolato dagli animali (alter ego umano) che sembrano uscire da un libro favoloso per trasformare le pareti della galleria in pagine chiare di una favola disarmante e allarmante.
Le storie dentro la mostra di Tibaldi a Napoli
Ogni tavola in mostra è un concentrato di storie, nella seconda (Capitolo II, IL RITROVAMENTO), ad esempio, tra le mille immagini che la riguardano, c’è un simpatico sorcio intento a leggere il ritaglio di un vecchio articolo (si tratta delleReazioni Emotive dei ratti al dolore altrui firmato da Russel Church nel 1959 sul Journal of Comparative and Physiological Psychology) in cui è scientificamente comprovato che il topo prova empatia nei confronti dei suoi simili, come del resto anche il ratto o la cavia: e proprio per questo motivo diventa per Eugenio Tibaldi il personaggio più idoneo della sua narrazione – ma anche perché nell’immaginario collettivo il rattus norvegicus rappresenta il sudiciume della società, la peste, qualcosa (di certo le nostre colpe) da allontanare.
Tutto, nel racconto, ruota attorno a una forma che si spezza dopo gli usi e gli abusi malsani della società senza contenuto: La forma spezzata, in sé, è una sorta di totem (di falso idolo) fatto di libri – di sapere dunque, ma di un sapere ormai vuoto e senza peso – che a ben vedere è la gamba capovolta di un tavolo (del tavolo di Monza Brianza, del distretto del mobile avvisa l’artista, richiamando alla memoria il maxi-tavolo di Putin prodotto nel 1995 dalla Oak di Cantù) da cui fuoriescono foglie d’oro finché non sopraggiunge l’inevitabile disastro: la forma si spezza, “cade”, e nella valle scende la nebbia dell’indifferenza, dell’inciviltà, del malessere, dell’anestetizzazione totale, dell’ottundimento, del qualunquismo. “Oggi, nel Paese più̀ bello del mondo, non vi è più̀ memoria della valle dalla primavera perenne ma alcuni sostengono che la forma sia esistita davvero e che ora brilli da qualche parte. Altrove”.
Antonello Tolve
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