Nuove strade concrete. Giuliano Dal Molin in mostra a Milano
Forme danzanti nello spazio sono le protagoniste di questa mostra nella sede milanese della Galleria Lia Rumma, con cui l’artista veneto rilancia l’attualità dell’astrazione geometrica
Potrebbe sembrare oggi che la strada dell’arte concreta sia da tempo esaurita. Un ragionamento in fondo affidato a pochissimi elementi dal carattere tautologico come colore, forma, luce e spazio. Elementi, certo, che se mal governati possono prestare il fianco all’autoreferenzialità e a un fare compositivo interessante ma fine a se stesso. L’impegno della Galleria Lia Rumma con artisti capitali, come Ettore Spalletti, che riconfigurano i mezzi dell’astrazione storica (monocromo, quadro-oggetto, osmosi tra pittura, scultura e installazione) aprendoli a sensibilità e urgenze contemporanee, è un ottimo viatico anche per l’ultima mostra che ha inaugurato nella sua sede milanese, dedicata all’artista Giuliano Dal Molin (Schio, 1960).
La mostra di Giuliano Dal Molin a Milano
Le proposizioni con cui sviluppa il suo discorso sui tre piani della sede meneghina di Lia Rumma sono quanto di più distante si possa immaginare rispetto al nome portato ad esempio di Spalletti, eppure simili sono la sottile ambiguità all’interno della quale entrambi gli artisti cambiano continuamente di posto i concetti di quadro, scultura, spazio, installazione e l’attenta cura con cui giocano l’elemento sensibile, ambientale e relazionale dell’intervento.
La mostra è progettata in maniera specifica. Al piano terra s’inizia con una monumentale composizione che utilizza le pareti come supporto per un libero muoversi di forme e colori: irregolare sulle mura laterali, più misurato e cartesiano nella parte frontale. Si nota subito un collegamento con un certo riduzionismo internazionale (Robert Mangold per gli Stati Uniti o Alan Charlton per l’Inghilterra) nel quale viene però reimmesso un portato poetico che non si può che ricondurre a una tradizione mediterranea. Il secondo piano presenta ai lati due “portali” quasi metafisici e, lungo la parete principale, tre lunghe strisce scultoree dall’ampia sequenza coloristica che sembrano cercare di estremizzare (o sfumare) i confini tra media e discipline, andando a toccare i limiti architettonici dell’intervento.
L’arte concreta di Giuliano Dal Molin
Se fino a questo punto gli equilibri cromatici, gli accostamenti e i rapporti attentamente misurati dimostrano una profonda conoscenza pittorica, all’ultimo piano sono i non-colori del bianco e del nero a segnare l’andamento della sala. Qui, torna alla mente l’eredità di Azimuth, anche in questo caso rimeditata secondo sensibilità e originalità proprie. Non si tratta infatti di semplici quadri che si modulano in superficie attraverso luci e ombre dell’ambiente, ma vere e proprie pareti che muovono i confini architettonici dello spazio come se questi ultimi si fossero tramutati in delicati fogli di carta.
Nonostante la decostruzione mediale crei una piacevole confusione percettiva e categoriale nella mente dell’osservatore alla fine della visita non si può fare a meno di pensare al reame della Pittura, complici le stesure artigianali, mai piatte né industriali a cui Dal Molin sottopone i propri solidi geometrici. E in effetti l’artista stesso racconta del tentativo di un transfert impossibile ma comunque proficuo tra un catalogo di Giovanni Bellini lasciato aperto nello studio e le opere realizzate nei mesi di preparazione alla mostra. Al di là di questo, riesce comunque appieno l’intento dell’autore di “uscire dal limite rappresentato dal quadro/finestra che racchiude il racconto, per liberare la forma/colore nello spazio”, in un’arte “concreta” che si dimostra però nella pratica molto più ampia e attuale della sua stessa definizione.
Gabriele Salvaterra
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