I taccuini Moleskine di Orhan Pamuk in mostra a Parma
Al Labirinto della Masone, 12 taccuini che aprono una finestra di pagine nella mente del grande scrittore. Disegni, paesaggi e parole in turco si intrecciano tra loro, come fossero uniche opere d’arte
Dopo aver camminato tra vanitas ed edicole manieriste, tra boiseries intagliate e statuette déco, ci si inoltra in uno spazio dotato di ampi contenitori vetrati, al cui interno, in una luce da acquario, si profilano dei leggii. Dodici in tutto. Aperti su di essi, poggiano alcuni taccuini Moleskine fittamente disegnati. Ecco qua, esposti per la prima volta, negli spazi adiacenti al Labirinto della Masone, i mitici quadernetti che lo scrittore turco premio Nobel Orhan Pamuk (Istanbul, 1952), da più di dieci anni porta sempre con sé: per cogliere in presa diretta la suggestione di un paesaggio, l’affiorare di un ricordo o il lampo di una visione. L’incrocio, in un unico flusso d’ispirazione, di disegni e spunti narrativi. Il titolo della mostra, Orhan Pamuk. Parole e immagini, a cura di Edoardo Pepino, riassume in poco un progetto articolato e ambizioso, che coinvolge in un percorso di interazioni e sinestesie.
La storia alle spalle dei disegni di Orhan Pamuck a Parma
Una video-intervista inedita di Pamuk – otto schermi sfalsati come grandi finestre aperte – ricrea i panorami e le atmosfere vissuti e meditati dallo scrittore. Emergono tutte le interconnessioni tra la realtà in cui egli si trova a essere immerso, e il dispiegarsi del suo immaginario.
A dare un’ampia campionatura dei suoi disegni, provvede poi il libro pubblicato da Einaudi Ricordi di montagne lontane, in cui si apprezza anche il significato dei testi, tradotti da Margherita Botto. Si capisce che la sua passione per il disegno e la pittura ha origini remote: “Fra i sette e i ventidue anni ho creduto che sarei stato un pittore”. Poi, spiega sempre Pamuk, “A ventidue anni il pittore in me è morto e ho cominciato a scrivere romanzi. Nel 2008 sono entrato in un negozio per uscirne con due sacchetti pieni di matite e pennelli, poi ho cominciato a disegnare su piccoli taccuini, diviso fra il piacere e il timore. Sì, il pittore in me non era morto”. Certo, il pittore non è morto, ma quello che rinasce è ora perfettamente integrato e fuso con il letterato.
I taccuini di Orhan Pamuk in mostra al Labirinto della Masone
Il corsivo nervoso della calligrafia di Pamuk, vergato con colori diversi, si insinua tra le immagini, si fa immagine esso stesso. Si infiltra tra le onde, si confonde con gli steli di erbe e cespugli, si inclina e si adagia sui declivi delle montagne, si slabbra e quasi si sfarina nei vapori delle nuvole. I suoni aspri, un po’ legnosi e petrosi dell’alfabeto turco, per noi che ignoriamo il loro significato, diventano, a volerli sillabare nel loro intimo, una serie incalzante di onomatopee che sembrano riverberare le scie dei suoni che riecheggiano nei paesaggi.
Come descrivere lo stile disegnativo di Pamuk? Un paragone con gli artisti che notoriamente sono indicati come i suoi preferiti, Anselm Kiefer, Cy Twombly, Raymond Pettibon, non aiuta granché a sciogliere questo interrogativo, anche se di questi tre maestri possiamo rinvenire qualche flebile eco o suggestione. La densità e la grana cromatica di Kiefer, la rapidità segnica di Twombly, l’incisività grafica di Pettibon. Ma quello che contraddistingue i disegni-scritture di Pamuk è una premura esecutiva che si potrebbe definire impressionistica, intesa a catturare l’immediatezza di una sensazione.
Non c’è da dubitare che in questi taccuini, Orhan Pamuk si senta, da un punto di vista creativo, realizzato al cento per cento: “Sono il padrone di un mondo che è solo mio – tiene a precisare – eppure non c’è niente di segreto: è proprio lì, nella perfetta mescolanza di testo e di disegno, che mi sento più libero.”
Alberto Mugnanini
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