Spazio urbano e fittizio nella mostra di Ludovica Carbotta a Bologna
Al MAMbo la prima mostra antologica italiana dell’artista Ludovica Carbotta apre le prospettive sulla relazione con lo spazio, con l’ambiente e con le rovine del futuro
La Sala delle Ciminiere del MAMbo di Bologna ospita la prima mostra antologica in Italia di Ludovica Carbotta (Torino, 1982; vive a Barcellona), a cura di Lorenzo Balbi, con l’assistenza curatoriale di Sabrina Samorì. Il progetto, realizzato grazie al sostegno della Direzione Generale Creatività Contemporanea del Ministero della Cultura nell’ambito di Italian Council, indaga la pratica multidisciplinare di Carbotta, sondando in particolar modo il suo interesse per il rapporto tra uno spazio e i suoi abitanti, e ciò che di tale rapporto rimane.
Lo spazio urbano nella mostra di Ludovica Carbotta a Bologna
Ludovica Carbotta conduce un’indagine sulle modalità con cui le persone stabiliscono connessioni con l’ambiente in cui vivono. L’esplorazione dello spazio urbano avviene in modo anticonvenzionale, tramite processi empirici, che esulano dalle metodologie convenzionali. L’opera Invisibile Modulor è il risultato di una performance dell’artista, che per diversi giorni ha completato la sua routine camminando scalza per il suo quartiere. Tornando a casa si strofinava le piante dei piedi con un tessuto e l’opera ne è il risultato. “Nella mia visione, individualità e ambiente si plasmano reciprocamente, diventando quasi indistinguibili l’una dall’altro. Le città sono il riflesso della nostra collettività, ma al loro interno è ancora possibile individuare le impronte delle nostre singole identità“, commenta l’artista.
A questo proposito, l’opera Il viaggio è andato a meraviglia, esercizio uno è un tentativo di diventare parte integrante del paesaggio, con il fine di poterlo comprendere dall’interno; nell’esercizio due della stessa serie, Carbotta realizza una serie di disegni a bordo di mezzi quali un treno o un autobus, soffermandosi sui dettagli delle strade che l’artista ha colto in movimento. Il riferimento è il corpo, lo spazio che occupa e l’ombra che può proiettare sulla strada. In Non definire la superficie, per esempio, l’artista cerca di attraversare la città senza proiettare la propria ombra.
Ludovica Carbotta e lo spazio fittizio
L’indagine si amplia, articolandosi in opere che rappresentano immagini distopiche e futuristiche del tessuto urbano e che spingono a riflettere sui rischi della radicalizzazione dell’individualità all’interno della società. Due serie di sculture sono presenti in mostra: Paphos e Die Telamonen, entrambe legate all’idea di crescita. La seconda è realizzata a partire da differenti metodi di produzione scultorea e dai conseguenti differenti risultati. Ogni membro di questa famiglia ha una propria storia e una propria psicologia. Il gruppo di sculture rappresenta un’interpretazione della fictional site-specificity, l’elaborazione di contesti immaginari o la materializzazione di ambienti reali tramite la finzione. In quest’idea, che esalta le capacità dell’immaginazione di fornire alternative all’ordine sociale, l’opera viene inserita nello spazio fittizio che ha generato.
Opera ricca di spunti di riflessione è Monowe, iniziata nel 2016 e ancora in corso, che riflette sulla condizione d’isolamento dell’essere umano. Racconta della città immaginaria di Monowe, abitata da una sola persona. Il mediometraggio è ambientato in un tribunale e rappresenta un procedimento giudiziario a carico dell’unico abitante della città. L’eliminazione dell’altro, della comunità, determina il bisogno dell’unico soggetto di incarnare differenti punti di vista: il giudice, l’imputato, l’accusa e la difesa.
Le rovine dal futuro nell’opera di Ludovica Carbotta
Il percorso espositivo continua con opere che riflettono sul valore delle rovine, nelle quali l’artista utilizza un futuro immaginario in una prospettiva archeologica. L’opera Plenum mostra un’immaginaria archeologia futura; costituito dall’analisi dei report sugli scavi archeologici della sinagoga di Ostia Antica, il lavoro è accompagnato dalla registrazione di una voce e da un segnale audio che evoca un’ambientazione futuristica. La mostra si conclude con una selezione di opere che adoperano la tecnica del calco, sia dal punto di vista formale che concettuale. Il vuoto si fa metafora sul confine: l’opera Solid Void è costituita da video in stop-motion in cui l’artista modifica una carta topografica della città di Torino, attraverso un collage in cui accorpa i ritagli degli edifici, eliminando gli spazi. La città diventa un unico spazio, privo di passaggi, chiuso su di sé e senza luoghi attraversabili.
Giulia Bianco
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