In memoria di Richard Serra. L’impermanenza e l’irripetibilità dell’arte
Le opere di Serra sono capaci di coniugare la presenza con una certa inafferrabile dimensione spettrale. L’artista è stato uno degli iniziatori della site-specificity
Per me, ammetto, Richard Serra (2 novembre 1938 – 26 marzo 2024) non è legato tanto agli aspetti più roboanti delle sue opere dalle curve massicce e imponenti (Cycle), opere che ti intimoriscono e ti sovrastano. Ma ad alcuni lavori fondamentali e giustamente celebri della seconda metà degli anni Sessanta. Lavori che, mentre ancora si sta cominciando forse a digerire la (difficile, ostica) estetica minimal, sembrano cambiare completamente le carte in tavola – e il gioco stesso, se è per questo – avviando il post-minimal. Ma non cambia niente, in fondo, a ben guardare; o meglio, queste opere sono la naturale conseguenza di un discorso molto coerente e solido, che abbraccia entrambi i momenti.
Le opere di Richard Serra
Sono infatti gli anni di Belts (1966-’67), Splashing (1968), Thirty-Five Feet of Lead Rolled Up (1968) e Splash Piece: Casting (1969-’70): opere fondate sull’impermanenza e sull’irripetibilità, capaci di coniugare la presenza con una certa inafferrabile dimensione spettrale. E sono anche gli anni di One Ton Prop: House of Cards (1969), uno stranissimo e leggendario cubo sospeso tra pesantezza e instabilità, tra equilibrio euclideo e indeterminazione quantistica.
La riflessione radicale portata avanti da queste opere è al tempo stesso personale e collettiva, visto che si connette a ciò che stanno realizzando negli stessi mesi artisti come Robert Morris, Eva Hesse, Lynda Benglis, Marisa Merz, Alighiero Boetti, Giovanni Anselmo, Giuseppe Penone e soprattutto Robert Smithson. C’è un filo sottile e resistente infatti che collega post-minimalismo, Arte Povera e land art, riconosciuto in diretta peraltro sia da Germano Celant che da Harald Szeemann, e fotografato dai testi del primo ma soprattutto da una mostra epocale come When Attitudes Become Form (1969) curata dal secondo.
Serra, Pollock e l’arte contemporanea
In questo articolato quadro internazionale, americano ed europeo, molto vivace e innovativo, Serra si muove da protagonista. La sua attitudine in questo periodo rende estremamente chiara la genealogia delle idee che nascono e si sviluppano: l’ascendenza, per esempio, di questo ‘gesto’ che consiste nel lanciare o nell’afferrare piombo, un gesto di natura esistenziale legato al qui e ora che proviene dall’action painting, dall’azione di Jackson Pollock (le Belts, peraltro, citano direttamente il Muraldel 1943). Dallo stick con cui l’artista fa colare e sgocciolare (drip) il colore al barattolo da cui un altro artista lo versa direttamente sulla tela a niente. O meglio: al corpo e all’oggetto che agiscono e si installano direttamente nello spazio, nel luogo, nel sito; all’opera che non è più modernisticamente indifferente al contesto ma che reagisce ad esso, e che trova solo e soltanto in questa reazione, in questa re-attività la propria ragione di esistenza.
Serra fin da subito è un maestro riconosciuto nell’articolare in senso fisico la nuova nozione della reattività rispetto all’ambiente, tanto da essersi attirato successivamente pesanti critiche per la sua assertività e ‘positivismo’ in tal senso. È uno degli iniziatori, infatti, della nozione di site-specificity(Spin Out, for Robert Smithson, 1972-’73).
Richard Serra: site-specifity e la storia del Tilted Arc
Paradigmatica, e a suo modo mitologica (oltre che famigerata), la vicenda del Tilted Arc (1981), posizionato nella Federal Plaza di New York e quasi immediatamente osteggiato dalla comunità di persone che attraversavano quotidianamente quello spazio pubblico e che percepivano l’arco – anche giustamente – come un ostacolo mastodontico. Fino ad arrivare poi, nel 1989, alla rimozione della scultura, con Serra che sdegnato e sdegnoso compila però una delle definizioni più precise della site-specificity, almeno nella sua nozione iniziale così come è stata riconosciuta e ricostruita da Miwon Kwon, messa in crisi definitivamente proprio dallo stesso Tilted Arc: “Come ho già detto, Tilted Arc è stata concepita fin dall’inizio come una scultura site-specific; quindi, non soggetta ad essere ‘adattata al sito’ o (…) ‘trasferita’. Le opere site-specific interagiscono con le componenti ambientali di determinati luoghi. La scala, le dimensioni e la posizione delle opere site-specific sono determinate dalla topografia del sito, che si tratti di un luogo urbano o naturale o di un contesto architettonico. Le opere diventano parte del sito e ristrutturano l’organizzazione del sito a livello sia concettuale che percettivo” (Richard Serra, Tilted Arc Destroyed, in “Art in America 77”, n. 5, maggio 1989, cit. in Miwon Kwon, Un luogo dopo l’altro. Arte site-specific e identità localizzativa, Postmedia Books, Milano 2020, p. 36).
L’opera di Serra è strategicamente fondante – insieme a quella di altri protagonisti della sua generazione – proprio per questa sua capacità unica di articolare l’interazione “con le componenti ambientali di determinati luoghi”, e di ristrutturare “l’organizzazione del sito a livello sia concettuale che percettivo”, in modi che sono stati certamente approfonditi dalle generazioni successive di artisti, ma anche in altri modi che credo forse debbano ancora essere adeguatamente sviluppati in futuro; in particolare, in merito al “diventare parte del sito” (o del contesto) in merito all’opera stessa.
L’ironia di Richard Serra
Di sicuro, un artista epico e assertivo e apparentemente serioso come Richard Serra è stato anche capace di una certa dose di autoironia, se ricordiamo come ha fatto Angela Vettese il modo in cui ha accettato di criticare il proprio stesso pensiero interpretando nel Cremaster 3 (2002) di Matthew Barney Hiram Abiff, architetto e progettista del tempio di Salomone/Chrysler Building. Dimostrando che un grande artista minimalista e postminimalista può anche giocare con il suo ruolo di icona, e prendersi pure un po’ in giro.
Christian Caliandro
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