Storia di Simon Hantaï, il pittore della “piegatura” in mostra a Roma
L’artista ungherese, che fu vicino al Surrealismo prima di avvicinarsi a Pollock sempre guardando all’arte dei maestri rinascimentali italiani, è l’inventore del metodo del “pliage”, che libera la pittura dalle convenzioni. Da Gagosian
Si intitola Azzurro, come il colore-guida che Simon Hantaï rintraccia nella pittura protorinascimentale sacra (blu è il manto della Vergine), la mostra che Gagosian Roma dedica alla visione di un artista fin troppo poco conosciuto, rispetto all’impatto del suo lavoro sulla scena artistica del secondo Novecento.
Storia e ricerca di Simon Hantaï
Nato a Bia, in Ungheria, nel 1922, Hantaï si trasferisce a Parigi nel 1948 unendosi al gruppo dei Surrealisti di André Breton dal quale, tuttavia, prende le distanze nel 1955. Sarà questo l’inizio di un percorso intimamente personale, però corroborato dal confronto con personalità dell’arte antiche e coeve cui lui riconosce la capacità di rompere gli schemi, votato all’idea (quasi una necessità) di rifondare l’arte, in risposta alle tragedie della sua epoca. Hantaï elabora così la tecnica del pliage (piegatura), nella quale la tela viene piegata, annodata, dipinta nelle porzioni visibili e successivamente dispiegata rivelando un’alternanza tra sfondo e parti pigmentate. E l’esposizione dei suoi dipinti da Gagosian, a cura di Anne Baldassari, vuole evidenziare quanto la riscoperta di una certa tradizione pittorica italiana – le pale d’altare e agli affreschi di Giotto, Masaccio, Piero della Francesca e Fra Angelico, ma anche la veemenza e l’esuberanza cromatica del Tintoretto – sia stata essenziale nella messa a punto di questo processo di semplificazione formale e astrazione concettuale che si concretizza nella definizione di un metodo. Nutrito anche, per completezza di visione, dal confronto con i dipinti del Periodo Blu di Picasso, in cui l’artista ungherese intravede una spiritualità affine a quella dei maestri rinascimentali (Picasso usa il colore per estraniarsi dalla realtà), e dall’elaborazione della pittura gestuale di Jackson Pollock: il suo dripping è la premessa del pliage di Hantaï, che ebbe modo di apprezzare da vicino le opere dell’artista americano a Venezia, alla Biennale del 1948, dopo essere rimasto folgorato dai mosaici ravennati di Galla Placidia. Gli Anni Quaranta, del resto, sono fondamentali per la sua formazione: Hantaï arriva per la prima volta in Italia nel 1942, soggiornando a Roma, Firenze e a Siena. Vi farà ritorno, un’ultima volta, nel 1982, di nuovo a Venezia, per rappresentare la Francia alla Biennale. Poi il ritiro dalla vita pubblica, rifiutando di esporre nuovi lavori fino al 1998, quando inizia a intervenire su una serie di pliage già esposti nel 1981, ma lavorando in isolamento fino alla sua morte, nel 2008.
La mostra di Simon Hantaï a Roma
Azzurro è un percorso, in ordine cronologico, attraverso i pliage di Hantaï. Dalla tela Peinture (Petit Nu) (1949), che nella fase giovanile evidenzia in modo più esplicito il riferimento agli affreschi rinascimentali, alle piegature degli Anni Sessanta (come Catamurons e Meun), dove strati di colore si alternano a spazi lasciati bianchi, ai monumentali dipinti della serie Tabula (1972–76; 1980–82), protagonisti nella sala ovale di Gagosian, che evidenziano il raggiungimento di un equilibrio tra rigore e casualità, metodo e automatismo. C’è però spazio anche per le sperimentazioni degli Anni Ottanta, che si nutrono di un utilizzo vibrante del colore.
Intervista ad Anne Baldassari, curatrice della mostra “Azzurro”
Sin da giovane, Hantai sentì l’urgenza di essere pioniere di una nuova Era artistica. Perché?
Dopo la fine della Seconda Guerra mondiale, nel 1946, il magazine ungherese Szinház pubblicò un intervento di Hantai che ci aiuta a capire la sua concezione dell’arte a quel tempo. Aveva 24 anni e aveva già completato gli studi all’Accademia di Belle Arti di Budapest. Si era pubblicamente opposto al Nazismo, era stato imprigionato, era fuggito e si era arruolato con l’Armata Rossa, per poi fuggire di nuovo. Queste avventure conferirono ad Hantai un’aura romantica ed eroica, accentuate dalla sua fisionomia e del suo look. Questo aspetto provocatorio fu accompagnato da una visione artistica molto forte. Aveva un’acuta consapevolezza che a distruzione causata dalla Guerra necessitava di una totale ridefinizione del ruolo dell’artista nella società, come pure della concezione filosofica dell’arte.
Prima trovò una direzione nell’arte medievale e rinascimentale italiana. Poi in Picasso e nel suo Periodo Blu. Quale fu il risultato?
Quando Hantai propose di ridefinire l’arte pensava all’invenzione di nuove modalità di rappresentazione della realtà, proprio come successe con gli artisti pre-rinascimentali e del primo Rinascimento. Giotto e Masaccio per lui rappresentavano questo momento di apertura e rivoluzione semantica. Ma studiò anche i lavori dei Lorenzetti, di Piero della Francesca e Beato Angelico: in loro gli interessava la tensione tra lo ieratismo arcaico dell’iconografia bizantina e la ricerca contemporanea. Più in generale, i pionieri cambiano il mondo esplorando i modi e i significati della pittura. Fu così anche per Picasso, le cui esplorazioni monocromatiche, durante il Periodo Blu, diedero avvio al Cubismo e alla liberazione della pittura dalla pretesa di rappresentare in modo mimetico la realtà. Lo shock della guerra portò Hantai a recuperare questi momenti cruciali nella storia dell’arte moderna. Poi, nel 1960, iniziò a cimentarsi con la tecnica della piegatura, che da lì in avanti avrebbe costituito il suo universo metodologico ed epistemologico.
Parliamo allora della piegatura…
La piegatura è un gesto strutturale che spiega il lavoro di Hantai. La scoprì negli Anni Cinquanta, nelle sue esplorazioni, particolarmente centrate su Cubismo, Dadaismo e Surrealismo. Un collage, in particolare, intitolato La Momie (l’immagine ritagliata di una mummia, delineata con inchiostro blu oltremare) giocò un ruolo cruciale. Ma è negli anni ’60 che Hantai accetta e abbraccia tutte le potenzialità epistemologiche del pliage, che è l’intersezione tra due principi: i gouaches ritagliati di Matisse e la pittura di Pollock, che importa l’automatismo nel gesto pittorico. L’azione di Pollock apre il campo verso una superficie pittorica illimitata che può ormai estendersi oltre i limiti imposti dal corpo, dalla tela o dal muro. La pittura, potenzialmente, può diffondersi nel mondo e continuare all’infinito, fondendosi e identificandosi con il mondo della res extensa, per citare Cartesio. Come Picasso, o Matisse e Pollock prima di lui, Hantaï vuole liberarsi di ogni apprendimento e conoscenza, percepiti come vincoli materiali o limitazioni strutturali. La piegatura come metodo fa della ripetizione del gesto compiuto “alla cieca” il principio dell’atto pittorico.
Perché Hantaï scelse di ritirarsi dopo la Biennale di Venezia del 1982?
Nel 1982 la sua presa di posizione assume il carattere di rottura politica con il sistema dell’arte e con i suoi agenti o intermediari. Hantaï credeva che la sua libertà di pittore fosse spesso sottomessa agli ostacoli del mercato. Così annuncia la sua decisione di smettere di dipingere e contemporaneamente di recidere i legami sia con individui che con strutture istituzionali o commerciali, tra cui la sua galleria storica (Galerie Jean Fournier) e l’establishment culturale.
Qual è l’eredità lasciata da Hantaï all’arte contemporanea?
L’opera pittorica di Hantaï mi sembra tra le più significative della seconda metà del XX secolo. La complessità della sua storia personale segnata dall’esilio, la radicalità delle sue posizioni e il rigore della sua pittura contribuiscono a conferirgli un’eccezionale originalità. Il modo in cui Hantaï ha esaminato a fondo la storia dell’arte moderna, ha condotto un’analisi ragionata e ha ricavato un metodo senza precedenti per rivoluzionare i mezzi della pittura, costituisce modalità esemplari per l’arte contemporanea. Ha aperto la strada ad artisti come Daniel Buren e Michel Parmentier. Credo inoltre che la richiesta di libertà di Hantaï, il suo ritiro dalla scena artistica e mediatica e il suo rifiuto di qualsiasi forma di influenza commerciale o museale siano simili a certe manifestazioni contemporanee.
La sua pittura mirava a liberarsi dai codici e dalle ricette accademiche. Come filosofo, condusse un’indagine sistematica per definire una possibile posizione etica del pittore dopo il periodo di massiccia distruzione del mondo a causa della guerra. Hantaï è riuscito, attraverso un rigoroso esercizio critico e l’ascetismo, ad aprire uno spazio potenzialmente illimitato per la creazione pittorica.
Livia Montagnoli
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