L’artista Adelita Husni-Bey offre “sedute di psicoterapia” durante la Biennale di Venezia
L’artista italo-libica porta in Laguna un progetto partecipativo che esplora i dolori fisici ed emotivi provocati da una società individualista fondata sul lavoro. E per aiutare il pubblico a superarli organizza insolite sessioni performative
Quando la solidarietà non è una metafora, recita il titolo della collettiva che riunisce a Venezia un gruppo di artisti impegnati a dimostrare come l’umanità e il sostegno reciproco debbano essere alla base della convivenza quotidiana, anche (e soprattutto) a fronte dei conflitti che stravolgono il mondo. Al Meeting Point del Navy Officers’ Club dell’Arsenale, la mostra a cura di Nataša Petrešin-Bachelez si protrarrà fino al 21 aprile 2024, in concomitanza con l’apertura della 60. Biennale d’Arte: il progetto, frutto della collaborazione tra Alserkal Initiatives e la Cité international des arts, mette insieme a partire dalla premessa di cui sopra una serie di esperienze artistiche che spaziano dalla fotografia alla performance, alle installazioni, alle conversazioni “cuore a cuore”. E proprio a quest’ultima tipologia si legherà la proposta portata in Laguna dall’artista italo-libica Adelita Husni-Bey (Milano, 1985), che accanto a numerosi altri artisti e istituzioni internazionali – da Majd Abdel Hamid a Yana Bachynska, Rehaf Al Batniji, Paula Valero Comín, Saad Eltinay, D Harding, Nge Lay, Museum of Breath, Koushna Navabi, Shada Safadi, Dima Srouji e Jasbir Puar – partecipa all’iniziativa. L’artista presenta in mostra l’installazione Encounters of Pain(2018-2021), progetto in evoluzione costante che si nutre dell’interazione e del dialogo con gli astanti. A Venezia, grandi fogli di carta usata per rivestire i lettini medici, vistosamente scarabocchiati, accolgono i visitatori fluttuando nell’aria, in bilico tra l’innocenza della composizione e il disagio trasmesso dalle note trascritte su carta. Ispirata al lavoro del pedagogo brasiliano Paulo Freire, l’installazione scultorea affronta infatti il modo in cui gli imperativi capitalisti condizionano i singoli soggetti a comportarsi in modo insostenibile e come la richiesta ideologica di successo individuale depoliticizza il dolore, spingendo i corpi letteralmente al punto di rottura.
L’installazione è il risultato di incontri performativi, sessioni individuali con i partecipanti, che vengono sdraiati su un lettino terapeutico rivestito di carta medica.
La performance di Adelita Husni-Bey a Venezia
Ecco perché, per tutte le giornate di apertura della mostra, nel bel mezzo del fermento portato in città dall’apertura della Biennale, l’artista propone sessioni di “psicoterapia”, per aiutare chi vorrà parteciparvi ad avvicinarsi intimamente al concetto di dolore, sia fisico sia emotivo. Le sessioni iniziano esaminando dove il corpo “fa male”, utilizzando un punteggio basato su un questionario medico standard, ma ideato per suscitare risposte che associano il dolore fisico al travaglio, allo stress emotivo e alle condizioni politiche che lo influenzano. Attraverso il dialogo e le annotazioni segnate sulla carta medica, i partecipanti iniziano a creare un filo tra il modo in cui il dolore fisico si manifesta nei loro corpi e il modo in cui sono stati condizionati a curarsi nell’attuale regime socio-economico. L’opera è composta da un archivio in continua evoluzione alimentato dai luoghi in cui si concretizzano gli incontri performativi (come in questo caso Venezia). Ma i partecipanti hanno anche la possibilità di distruggere il risultato della sessione.
Gli incontri, in inglese o italiano, hanno durata di 20 minuti; le sessioni sono articolate in giorni e orari specifici, anche nella forma di “terapia” individuale. Husni-Bey, che è anche pedagoga di formazione, non è nuova a lavorare su questi temi intrecciando teatro, attivismo, arte e formazione, nella dimensione di laboratori collaborativi e progetti partecipativi che puntano a promuovere ambienti collettivi non competitivi, all’insegna del dialogo e dell’esplorazione dell’altro. Un approccio che intercetta le motivazioni della mostra veneziana, che si ripromette di parlare di cura e generosità come pratica attiva.
Livia Montagnoli
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