Dalla scrittura mesopotamica alla sfera. Arnaldo Pomodoro in mostra a Milano
I segni cuneiformi dei Sumeri, gli ossi di seppia, le tele multimateriche di Alberto Burri. E persino un vago rimando al pittore rinascimentale Paolo Uccello. Queste sono solo alcune delle suggestioni evocate dalla ricca selezione di opere dell’artista che lo celebrano a Milano
Novantasette anni, ma ancora arzillo a sufficienza da recarsi ogni settimana a vigilare su quanto accade nella sua Fondazione. Questo è oggi Arnaldo Pomodoro (Morciano di Romagna, 1926): inarrestabile “tarlo che divora la materia dall’interno” – come lui stesso ama definirsi. Passa il tempo, ma la sue sfere di bronzo lucenti rimangono sempre smaglianti, e lui con loro. Lo si può constatare passeggiando per i centri di metropoli disperse in tutto il mondo. Dall’esemplare milanese di Piazza Meda, al Trinity College di Dublino, fino all’ingresso del Palazzo dell’ONU a New York. La cura e l’attenzione per queste sue sculture è massima; sarà forse perché, se diventassero opache per scarsa manutenzione, ne svanirebbe il significato. Quel dualismo tra lucida levigatezza dell’esterno e “polpa piena di intricate composizioni”: una metafora del mondo, che associa complessità ed essenza.
Ed è proprio una sfera – anzi due – ad essere tra le protagoniste di una ricca mostra retrospettiva che ripercorre tutta la carriera di Pomodoro, celebrandone la figura. Accade alla Galleria Cortesi, nella cui sede milanese di Palazzo Morigi è esposta una serie di opere esclusive, di cui alcune addirittura inedite. Una narrazione – costruita in stretta collaborazione con la Fondazione Arnaldo Pomodoro – che copre la sua produzione dagli albori degli Anni Cinquanta, offrendo materiale a sufficienza per esplorare i molteplici lati creativi di questo personaggio.
Arnaldo Pomodoro: il tarlo delle sfere di bronzo in mostra a Milano
Tarlo o termite che lo si chiami, il concetto è lo stesso. Uno scultore affamato di scavare e intagliare il cuore delle sue sculture di bronzo, inscrivendone i meccanismi interiori ed enigmatici. Complessi e indecifrabili. Un ibrido indistinto tra ingranaggi, martelletti di un pianoforte e alfabeti antichissimi ispirati ai popoli Mesopotamici. Sono questi i risultati del lungo processo di realizzazione delle sfere; una serie di passaggi meticolosi, che si rifanno a una pratica altrettanto arcaica. Quella della fusione a cera persa. A illustrarlo in modo scenografico è un video d’epoca Arnaldo Pomodoro makes a sphere, che accompagna i due esemplari iconici in mostra, di cui uno posto all’ingresso, proprio nel cortile di Palazzo Morigi. Un temporaneo regalo agli abitanti del palazzo, che sono accolti dall’opera di Pomodoro ad ogni loro ritorno a casa; un benvenuto al pubblico che si appresta a scoprire il resto della collezione.
Dagli ossi di seppia ai gioielli di Arnaldo Pomodoro a Milano
Ossi di seppia. Nome di una nota raccolta di poesie di Eugenio Montale, che qui è da intendere nel vero senso della parola. Come racconta Pomodoro stesso, guardandosi alle spalle, l’incipit della sua arte nacque a Pesaro. Quando ancora era un ragazzo, passeggiando per le vie del paese, notò un orefice intento a lavorare proprio uno di quegli ossicini. Ne rimase affascinato. L’osso di seppia aveva come una trama magica: qualsiasi cosa vi venisse fatto, era per forza di cose interessante. Da lì – avendo scoperto che era possibile fonderli e lavorarli con metalli preziosi – scaturirono le prime idee per i suoi gioielli. La produzione di Pomodoro comprende infatti anche una ricca serie di opere d’arte da indossare(definirli gioielli è quasi riduttivo). Creazioni inaspettate, che talvolta miniaturizzano le sue celebri sculture, e in altri casi virano su tutt’altro. La mostra propone alcuni di questi manufatti, tra cui un bracciale d’oro rosso contornato da un giro delle sue incisioni manoscritte, e una sfera che si fa ciondolo di un raffinato girocollo.
Un vago ricordo di osso di seppia è anche una delle quattro opere inedite esposte qui per la prima volta. Al centro di un fondo grigio grafite, emergono due corpi verticali, dai profili smussati. E non è l’unico riferimento che questi lavori evocano. Nella loro bidimensionalità – le opere da parete sono infatti rare in Pomodoro – paiono ispirarsi alle tele di Alberto Burri. Si intravvede un’analoga sperimentazione, reinterpretata però con i materiali a lui più familiari: ferro, rame, zinco e stagno.
L’alfabeto arcaico di Arnaldo Pomodoro in mostra da Cortesi Gallery
Ampio spazio è dato ai segni e alle scritture che distinguono Arnaldo Pomodoro almeno quanto le sfere. “Come una lingua che non ci appare più, dimenticata, sconosciuta, ma con cui percepiamo inconsciamente un’antica connessione” – questo è il suo alfabeto, che trascrive sul bronzo come fosse uno scriba incaricato di incidere le memorie del suo tempo.“Le impronte che scavo, irregolari o fitte, nella materia artistica, i cunei, le trafitture, i fili, gli strappi, mi vengono inizialmente da certe civiltà arcaiche”. È la confessione del fascino da lui nutrito per le scritture cuneiformi dei popoli della Mesopotamia. Sumeri e Hittiti in particolare. Le si rivede nell’opera totemica presente in galleria, in cui una serie indecifrabile di segni prosegue dall’alto al basso, raccontando chissà quali imprese epiche.
E il legame tra disegno e scrittura continua negli ultimi lavori esposti: le matrici delle sue illustrazioni che accompagnano gli scritti di poeti come Luis Borges ed Emilio Villa. Veri “libri d’artista”, in cui le parole impresse al contrario sul metallo si fondono con i segni e le immagini scelti dall’alfabeto di Pomodoro. L’esito è un tumulto di spigole, linee e punte, quasi fosse la Battaglia di Anghiari di Paolo Uccello.
Emma Sedini
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