Il meglio e il peggio della Biennale Arte 2024 dopo i giorni di inaugurazione
A conclusione dell’anteprima stampa della 60. Esposizione Internazionale d’Arte di Venezia, un primo bilancio dell’edizione che racconta un mondo di “Stranieri Ovunque” attraverso la regia curatoriale di Adriano Pedrosa
Cosa ci ha convinto, e cosa no, nei giorni di anteprima stampa della Biennale Arte appena inaugurata in Laguna? Stranieri Ovunque, a cura di Adriano Pedrosa, ha invitato gli addetti ai lavori ad ampliare lo sguardo su una pluralità di voci, attraverso la celebrazione dello “straniero” in tutte le sue conformazioni. Tra spunti virtuosi e scelte (od omissioni) che risultano, invece, meno centrate. Ma negli ultimi giorni, come consuetudine di un evento che mobilita tutti gli spazi culturali di Venezia, la città ha offerto anche un ricco programma collaterale, tra mostre, progetti, performance fioriti attorno alla grande mostra internazionale allestita tra Giardini e Arsenale e all’ampio parterre di padiglioni nazionali. La sessantesima Biennale Arte sarà aperta al pubblico fino al 24 novembre 2024. Qui condividiamo le nostre conclusioni, tra top e flop.
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TOP – I padiglioni nazionali
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TOP – Le grandi mostre collaterali in città
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TOP – La qualità delle performance che attivano la programmazione culturale
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Tra TOP e FLOP – La presenza italiana (solo) fuori dalla Biennale
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FLOP – Dov’è finita la tecnologia nella mappatura degli “Stranieri Ovunque”?
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FLOP – L’affollamento dell’opening rende impossibile il lavoro di chi deve documentare
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FLOP – Lo sponsor Swatch
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FLOP – La mostra sulle tette
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FLOP – La sovrapposizione della Biennale con il Salone del Mobile
Sono 43 i Paesi partecipanti alla 60. Esposizione Internazionale d’Arte, tra Arsenale, Giardini e centro storico veneziano (per ora resta chiuso il Padiglione Israele, che attende la fine delle ostilità e la liberazione degli ostaggi). Un’epopea che si conferma la chiave vincente della Biennale, per merito dell’alto livello dei progetti presentati dai padiglioni nazionali, con l’Italia – nell’imponente spazio all’Arsenale – a proporsi tra le espressioni più intelligenti e raffinate di questa edizione, grazie al lavoro di Massimo Bartolini, curato da Luca Cerizza. Per una ricognizione più puntuale, rimandiamo alla guida dei 10 migliori padiglioni da vedere in città. Resta il fatto che questa modalità da expo ottocentesco, che sembra antiquata, in realtà tiene botta alla grande.
Si conferma un assunto sempre valido nella Venezia della Biennale Arte, capace di mettere insieme una programmazione di mostre collaterali di sfavillante livello. Francesco Vezzoli, Armando Testa, Julie Mehretu, Pierre Huyghe e Willem De Kooning sono solo alcuni dei tantissimi nomi che animano la Serenissima in occasione della 60. Biennale Arte di Venezia, ma decine sono i progetti espositivi dovuti alla partecipazione attiva di musei e fondazioni della città, nuovi spazi compresi (come non citare il recupero di Palazzo Diedo per merito della Berggruen Arts & Culture, che si presenta al pubblico con la mostra Janus e punta a diventare un grande centro d’arte in città?). Segnaliamo, alle Gallerie dell’Accademia, la retrospettiva – la più grande mai realizzata in Italia sull’artista americano – che fa luce su una parte poco esplorata della produzione diDe Kooning. Ma anche l’ipnotico allestimento di Tadao Ando alla Scuola Grande della Misericordia per i nuovi lavori dell’artista Zeng Fanzhi (Zeng Fanzhi: Near and Far/Now and Then), e la mostra “vivente” di Pierre Huyghe (Liminal) a Punta della Dogana. E ancora la imperdibile mostra di Jean Cocteau alla Collezione Peggy Guggenheim e l’incredibile – incredibile! – mostra di Christoph Büchelche dopo il barcone del 2019 torna a Venezia questa volta alla Fondazione Prada. Partecipano al fermento espositivo anche le gallerie private, ma ne parleremo più approfonditamente.
Diverse le performance che hanno attivato padiglioni nazionali e spazi espositivi in città, alcune particolarmente meritevoli di attenzione. Il padiglione della Gran Bretagna ai Giardini, per esempio, ha scelto di valorizzare il progetto dell’artista anglo-ghanese John Akomfrah attraverso una performance canora rastafariana. Mentre la danza ha giocato un ruolo da protagonista all’Arsenale, per introdurre la mostra internazionale. E sull’Isola di San Giacomo, la Fondazione Sandretto Re Rebaudengo ha portato il rituale beneaugurante della danzatrice e coreografa coreana Eun-Me Ahn, che ha invocato gli spiriti del passato.
Italiani ovunque, sì. Ma un po’ meno in Biennale: nell’articolo a firma di Santa Nastro abbiamo già espresso la perplessità sull’assenza (o scarsissima presenza) di artisti italiani contemporanei all’Arsenale e ai Giardini. Per contro, rincuora riscontrare come la rassegna del 2024 sia contornata da mostre, progetti, ricognizioni che mettono in luce “quanto l’Italia abbia da offrire se parliamo di nuove o mature generazioni di artisti che interpretano in modi differenti il presente”. Ci si rifà parzialmente con il ventennale progettone Disobedience Archive concepito dal curatore Marco Scotini e ben presentato in una sala tutta sua, con De Pisis, con la pittrice Andreani (anche per lei una sala dedicata!) e con la sala – molto significativa – dedicata alla diaspora degli artisti italiani che per diventare grandi sono dovuti andare all’estero.
Stranieri Ovunqueè una Biennale che celebra lo straniero, in tutte le sue possibili conformazioni: da chi proviene dal Sud globale a chi fa parte della comunità queer, il pregio di questa Biennale è l’essere riuscita a dare una voce consistente a oltre trecento artisti “outsider”, appartenenti a contesti sottorappresentati dal sistema dell’arte. Pesa, però, nell’esplorazione del catalogo di opere presentate tra Giardini e Arsenale, il fatto che la pittura – e in generale le soluzioni più tradizionali – sembri essere il medium favorito della stragrande maggioranza degli artisti selezionati, con il rischio di postulare una distanza dello “straniero” dalla tecnologia, conclusione non necessariamente veritiera. Un anno a parlare solo di Intelligenze Artificiali e poi arrivi alla Biennale e sembra di stare in una bolla…
Con la mirabolante cifra di 26.795 visitatori accreditati nei giorni di pre-apertura, la Biennale di Venezia comunica di aver toccato un record fissato da un +19% rispetto al 2022. Entusiasmo non pienamente coerente se rapportato all’impossibilità di lavorare nelle condizioni idonee (per esempio evitando file interminabili all’ingresso dei padiglioni, o scongiurando chiusure inaspettate degli spazi dovute al brulicare di eventi privati) per i 4.315 giornalisti presenti in Laguna (la maggior parte stranieri, dunque arrivati a Venezia affrontando lunghi viaggi). Senza contare l’annoso – e ancora irrisolto – problema degli orari di apertura troppo ridotti: perché chiudere tutti gli spazi (anche i collaterali) tra le 18 e le 19 nei giorni di preview, impedendo a giornalisti e operatori del settore di concedersi qualche ora di lavoro in più una volta chiusa la mostra centrale della Biennale? A partire da mercoledì il pubblico era già un misto di appassionati, presenzialisti, curiosi e turisti culturali. I giornalisti che dovevano provare a documentare la mostra, annegati nella folla di chi sarebbe potuto venire anche il fine settimana successivo (c’è pure il ponte!).
Di multinazionali che investono sull’arte per individuare nuove narrazioni con le quali parlare al proprio pubblico ce ne sono assai. Alcune decidono di farlo in maniera approfondita, con investimenti adeguati e con un certo rigore scientifico (a Venezia, ad esempio, basti vedere cosa fanno i gruppi del fashion come Prada o Arnault), altri articolano invece un semplice placement del brand accompagnato da progetti artistici magari coerenti in altri contesti ma assolutamente inadeguati e fuori luogo nell’ambito della Biennale. La grande maison svizzera degli orologi Swatch – con la sua confusionaria galleria di opere all’Arsenale e con una improbabile installazione fumettistica ai Giardini – ha purtroppo optato per la seconda strada. Il problema è che Swatch è il principale sponsor della Biennale. Questa presenza però non fa bene né a Swatch né alla Biennale: sarebbe meglio comparire come sponsor senza pretendere di apparire anche fisicamente con delle presunte opere d’arte. Lasciando che le opere d’arte in mostra siano solo quelle della Biennale stessa e non quelle dello sponsor di turno.
È stato molto complicato visitare Palazzo Franchetti e tutte le mostre lì ospitate perché gli orari di apertura erano costantemente funestati da feste, cocktail, ricevimenti e party privati: le mostre risultavano aperte, ma l’ingresso veniva garantito solo a chi aveva l’invito per l’evento di turno. Tuttavia, a un certo punto siamo riusciti a visitare l’edificio: bene la mostra organizzata dai ricchissimi enti del Qatar, bene il Padiglione Portogallo, ma poi c’era l’attesissima mostra sulle tette (Breasts). Una serie di opere ingenuamente giustapposte per raccontare lo sviluppo della storia dell’arte attraverso la rappresentazione del seno. Sponsor? Non ci crederete: Intimissimi. Cioè un brand di lingerie che sponsorizza una mostra d’arte a tema sul décolleté. Già era abbastanza cringe così, ma il problema è che la mostra è pure piuttosto povera, misera scientificamente, triste a livello di allestimento, magra di prestiti. Non si salva granché. Eppure il Gruppo Calzedonia (di cui Intimissimi fa parte) non è una piccola società che può permettersi questi scivoloni: il suo fatturato è di 3 miliardi all’anno, del tutto simile a quello del Gruppo Prada il quale però da anni si distingue per rigore, ricerca e approfondimento. Care aziende italiane multimiliardarie: se volete fare cose nel mondo dell’arte siete le benvenute, ma o fate le cose per bene (visto che ne avete i mezzi) oppure, se fate porcherie, finirete sempre nei nostri “flop”.
Ci eravamo già espressi, interpellando gli uffici stampa chiamati a dividersi tra Milano e Venezia per la concomitanza di Salone e Biennale, sulla scelta scriteriata di sovrapporre le date di due delle principali manifestazioni culturali (e commerciali, per le loro ricadute sull’economia di settore, e non solo) del Paese. Lo confermiamo: inaugurare la Biennale Arte nei giorni della Milano Design Week è stata una sciocchezza. Occorre iniziare a pensare fin da ora a una ‘ecologia’ delle date dei grandi eventi italiani per il prossimo anno e per quelli a venire.
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TOP – I padiglioni nazionali
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TOP – Le grandi mostre collaterali in città
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TOP – La qualità delle performance che attivano la programmazione culturale
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Tra TOP e FLOP – La presenza italiana (solo) fuori dalla Biennale
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FLOP – Dov’è finita la tecnologia nella mappatura degli “Stranieri Ovunque”?
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FLOP – L’affollamento dell’opening rende impossibile il lavoro di chi deve documentare
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FLOP – Lo sponsor Swatch
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FLOP – La mostra sulle tette
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FLOP – La sovrapposizione della Biennale con il Salone del Mobile
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