A Milano l’Elegia di Gabrielle Goliath contro la violenza di genere
Sette cantanti, una sola nota penetrante tenuta per un’ora. È il lamento funebre che l’artista sudafricana dedica a tutte le vittime di violenza di genere. Per la prima volta in assoluto, il progetto è raccontato in una mostra
L’elegia – in quanto componimento lirico con una metrica particolare – ebbe origine nell’Antica Grecia. Allora era utilizzato per esprimere messaggi di varia natura: dalle esortazioni patriottiche, ai contenuti didascalici. Spesso, però, le elegie divenivano veri e propri lamenti funebri, tanto che c’è chi sostiene che il termine “elegia” derivi proprio dalla loro traduzione greca. E tale significato è anche quello attribuito dall’artista sudafricana Gabrielle Goliath (Kimberly, 1983). Elegy: una parola già pregna di storia, che si fa titolo di un lungo progetto, tutt’ora in corso, quale inno alla non violenza di genere. Dieci performance, eseguite negli anni da voci femminili di cantanti d’opera, per la prima volta in assoluto rielaborate in un evento espositivo. È quanto avviene a Milano in Via Stradella, nei tre spazi della Galleria Raffaella Cortese.
L’elegia di Gabrielle Goliath: la storia del progetto in mostra a Milano
“Mi sento obbligata nel rivolgermi all’arte come mezzo per affrontare e lottare contro questo tema così difficile e complesso”. Tema – quello di Elegy – che abbraccia ogni declinazione di ciò che si definisce violenza di genere. Violenza da molti ritenuta legittima per il solo fatto che si è donne, soprattutto se nere, queer, o in qualsiasi altro modo non conformi alla regola dell’uomo bianco.
La genesi del progetto risale a molto tempo fa, al 1991, quando Goliath si trovò personalmente toccata da un caso di violenza domestica, che la privò di una persona a lei cara. Qualche tempo dopo – erano passati diversi anni – discutendo con sua madre concepì l’idea di fare qualcosa che ricordasse queste vittime, sottolineando il loro essere persone vere, con una vita e una voce altrettanto vera. Nel 2015, il proposito si concretizzò nella prima performance elegiaca, seguita poi da altre analoghe occasioni. Ogni volta, cambiano i contesti e le performer, ma l’impronta rimane la stessa. Un lamento lungo un’ora – un’unica nota, penetrante, sostenuta dall’alternarsi di sette voci. Un canto di supporto alle vittime di violenza, che, senza altrettanta violenza, vuole perpetrarne il ricordo tra i vivi.
Il significato delle elegie di Gabrielle Goliath in mostra a Milano
Al centro di ogni canto funebre c’è sempre una persona. “Quando si affronta questo tema bisogna realizzare che queste sono persone vere, con una vera vita e vere voci. Si tratta di un soggetto davvero molto sensibile e delicato”. La performance si fa mezzo di supporto, di ricordo, di vicinanza a chi non c’è più. Perché per cambiare la realtà – una realtà che in Sudafrica ha la forma di una successione continua di atti di violenza di genere – non si può dimenticare. Bisogna denunciare, dare voce a chi non l’ha più, e “rieducare i nostri figli” come sostengono alcune donne coinvolte nel progetto. Ecco che l’elegia, portando i nomi propri delle vittime, assume proprio questo ruolo: un messaggio diretto, provocatorio, e senza censure.
La mostra di Gabrielle Goliath da Raffaella Cortese
Tutto quanto detto, tutta l’etica e la forza di denuncia prorompente intrinseca nel progetto, è oggi raccolta alla Galleria Cortese. O, almeno, questo è il tentativo. Le dieci performance sono ricomposte in una serie di video e audio evocativi, visibili all’interno di due dei tre spazi milanesi. La galleria è vestita a lutto: nero ovunque, tende che avvolgono l’oscurità. Le uniche luci sono puntate su una serie di cartoncini grigi impilati, deposti come lapidi accanto alle installazioni. Sono messaggi, ricordi, quasi preghiere; parole di chi vive, e fa rivivere chi non c’è più. I nomi delle vittime: sempre scritti accanto.
E poi, l’ultima sezione della mostra. Qualche immagine sulla parete. Eloquente quanto basta. Ciascuna è un ritratto di una donna di colore, nero su nero, la pelle contro lo sfondo. Tocchi di luce e di colore – una tiara di perline, una collana multifilo – illuminano i volti fotografati, rivelandone le espressioni. Le labbra carnose di ciascuna sono schiuse: è un canto? Un grido? Un lamento? Forse tutto insieme. Non c’è odio né dolore violento in nessuna di loro; le elegie di Goliath sono un ricordo e un gesto solidale. Non vogliono aggiungere dolore al dolore.
Così, nelle tre sale appena descritte, la mostra prova a fissare ed esporre al pubblico il messaggio profondo dell’artista. Tentativo ambizioso: tanta è la complessità e l’inafferrabilità di questi lamenti, che ridurli a un percorso espositivo è impossibile. Se ne esce toccati, ma non sconvolti. È comunque un grande risultato, che porta a Milano – a grande distanza dai luoghi in cui sono state udite davvero quelle voci – un riassunto di una battaglia che continua. Che coinvolge tutti, al di là dei confini tra stati.
Emma Sedini
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