“Non credo al caos”. Intervista allo scultore Tony Cragg
A Venezia, nel Negozio Olivetti in Piazza San Marco, il più famoso scultore inglese Tony Cragg presenta una serie di nuove opere, in dialogo con Carlo Scarpa. Lo abbiamo intervistato
Oggi come in passato, Tony Cragg (Liverpool, 1949) viene definito e si definisce un materialista. Indubbiamente il suo è un materialismo che crede instancabilmente nella scienza come fonte di conoscenza, a quella che si può definire scienza pura, capace di comprendere i meccanismi alla base dei fenomeni naturali. È Thomas McEvilley, tra gli altri, a puntualizzare le implicazioni materialistiche alla base del lavoro di Cragg: sono gli Anni Novanta, le lunghe passeggiate con Richard Long alla ricerca di detriti e rifiuti urbani per i suoi assemblaggi scultorei sono alle spalle, e la gamma dei materiali impiegati si amplia con bronzo, ferro, ceramica, legno e vetro. La scelta dei materiali non è fine a se stessa ma si accompagna al loro studio ontologico, alla (ri)scoperta della loro essenza.
La mostra di Tony Cragg a Venezia
Non molto è cambiato, Cragg continua ad arricchire il vocabolario formale della scultura contemporanea con una costante evoluzione che non nega le fasi precedenti, bensì approfondisce ulteriormente la relazione tra la forma, la materia e il movimento testando possibilità e limiti delle superfici scultoree.
Nello storico Negozio Olivetti in Piazza San Marco a Venezia, il FAI – Fondo per l’Ambiente Italiano, in collaborazione con la Fondazione Berengo, presenta la mostra Tony Cragg. Le forme del Vetro. A cura di Cristina Beltrami e Jean Blanchaert, l’esposizione si concentra sull’esperienza pluriennale di Cragg nella ricerca attorno alla fluidità e alla trasparenza del vetro nell’incessante approfondimento di nuove forme scultoree. Il dialogo con l’architettura di Carlo Scarpa è imprescindibile, quasi doveroso, al punto che al grande architetto veneziano è dedicata un’inedita scultura in vetro, creata in collaborazione con i maestri vetrai dello Studio Berengo, la cui l’interessante dinamica tra esterno e interno richiama gli organismi architettonici scarpiani, strizzando l’occhio al design italiano degli Anni Sessanta.
Intervista allo scultore inglese Tony Cragg
Quando è all’opera nel tentativo di attingere all’immenso serbatoio di significato delle forme, alla ricerca dell’energia interna della materia, la sua attenzione si concentra sul significato e sull’espressione emozionale di quest’ultima. Che cosa ha provato al lavoro allo Studio Berengo?
Come scultore non ho mai avuto alcun interesse nel copiare realtà. Non ho mai realizzato figure umane in bronzo o altri materiali, lo stesso vale per il vetro. Quello che provo riguardo al vetro, al di là della sua accattivante attrattiva decorativa, è un forte interesse materico. Il vetro nel suo stato fluido realizza costantemente geometrie perfette, è come una goccia di pioggia o una lacrima che assume una forma perfetta grazie alla tensione superficiale e alle leggi della fisica che controllano il suo flusso come controllano tutto ciò che ci circonda. Così come per i miei lavori precedenti, il mio interesse va alla struttura interna del materiale. Se si guarda un essere umano tutto ciò che si vede è la superficie, qualunque essa sia, ma questa non altro che il risultato di tutto ciò che essa racchiude. E quando ci si trova davanti ad un paesaggio, non importa quale sia, se si conosce un po’ di geologia, si conosce il perché di ciò che si guarda: colline, montagne, valli e vulcani. Quindi la superficie esterna non è altro che conseguenza della struttura interna e della fisica di qualsiasi materiale.
Nelle opere che presenti a Venezia c’è una forte riflessione sul corpo…
Oggi è stata la volta della sperimentazione di un nuovo materiale, il vetro nero, medium che ho usato solo molto raramente in passato. È un’idea che ho avuto molti anni fa: si tratta di un insieme di vasi, se vogliamo, di organi messi insieme e poi uniti da un tessuto legante, proprio come all’interno di un organismo vivente. Questo mi ricorda il modellino anatomico del corpo umano della Airfix che avevo da ragazzo, con gli organi estraibili all’involucro trasparente della pelle.
Bisogna poi aver presente l’ambiente della fornace: in primis fa molto caldo e i maestri vetrai lavorano veramente al limite delle loro possibilità fisiche. Vi è un’enorme quantità di energia in movimento e ci si rende immediatamente conto di una sorta di eleganza. Era buffo che ci fossero dei calcoli matematici annotati sul mobile accanto alla postazione lavoro, perché proprio di un’equazione si tratta: quanto tempo, quanta energia, quanto materiale, quanto calore…
Quando si parla del lavoro di Tony Cragg si parla di tante cose, scienza, chimica, geologia, matematica, etc: c’è spazio per il caos?
Non credo al caos. Quello che apparentemente sembra caos altro non è che una situazione così complicata da sovraccaricare l’ambiente di intelletto. Ciò che molti anni fa sembrava caotico oggi non lo è più. Prendiamo per esempio una goccia di pioggia o anche il pavimento di questa stanza, come qualsiasi altra cosa realizzata dall’uomo: ogni parte di qualsiasi materiale ha una valenza, un parametro chimico e un valore ad essa collegato, nel senso di quantità numerica misurata.
In che senso?
Ciò che è caotico è ciò che supera la nostra immaginazione. Preso un blocco di 10 kg di argilla, al suo interno ci sono non un milione, non un miliardo, ma un numero infinito di forme che possono uscire e concretizzarsi. Alcune sono solo polvere sulle nostre mani. Se si lavora e se si continua a cambiare quella superficie, quel materiale, a meno che non si decida di realizzare una figura in perfetta mimesi con la natura, allora si crea qualcosa che ha una nuova associativa legata ad essa. Molte cose sono prive di significato se non si crea un esame emotivo intellettuale, come forme che si uniscono ad acquisire significato. È così per tutta l’arte: dipende da ciò che c’è dentro di te. Ed è questo che in realtà è la mia idea di scultura.
Secondo l’ideologia scarpiana, le sue opere, esposte nella cornice del Negozio Olivetti, divengono parte della narrazione e della storia del luogo, come si sente a riguardo?
Sono consapevole dell’importanza del luogo e del dialogo tra contenuto e contenitore. Tuttavia solo raramente ho realizzato opere su commissione: la mia unica motivazione del fare arte è quella che ho appena descritto, cioè la ricerca di un significato intrinseco, di ciò che per me ha significato. La mia attenzione non si confronta spesso con lo spazio che mi circonda ma si focalizza sul codice interno degli oggetti. Quando lavoro nel mio studio, il pensiero degli altri e dell’esterno è l’ultimo a sfiorarmi. Sono interessato ai materiali. Vengo della Svezia in questo momento, dalle sue rocce e dalle sue montagne. Sono colmo di quell’esperienza, altre, più effimere e imbrigliate, mi interessano meno.
Nondimeno la realtà della laguna di Venezia non le è nuova: la sua frequentazione delle fornaci di Murano è assidua dal 2009, da quando ha instaurato una collaborazione con la fornace della Fondazione Berengo…
Tutti amano Venezia. Personalmente sono affascinato dalla dimensione naturale della laguna; si sente la vicinanza delle montagne, quando si decolla in dieci minuti stai sorvolando le Alpi, questa combinazione naturale rende la città davvero unica. Soprattutto se non si è qui solo d’estate, se si viene in autunno e in inverno si respira davvero un’atmosfera fantastica, si percepisce la sua enorme storia di città commerciale e molto altro. Come attrazione turistica trovo Venezia sgradevole. Sono molto più felice sulla vetta di una montagna: mi domando sempre perché non ci sia nessuno. Non posso credere che più si sale e meno persone ci sono, questo mi sorprende ogni volta perché raggiungere le più elevate altitudini è incredibile. Camminare per le calli con una guida che ti tratta come un animale da branco è per me come quando ti mettono davanti ad un quadro e ti dicono cosa significa, lo trovo molto fastidioso.
Questo è per me il punto centrale dell’arte, scoprire cosa può dirci. Quando si inserisce l’opera d’arte in un contesto, è proprio questo che si vuole che la gente tragga, che si metta difronte ad essa e che abbia una reazione emotiva o intellettuale. Sei tu davanti al quadro o alla scultura, con la tua istruzione, con il tuo bagaglio culturale, la tua educazione, la tua esperienza di vita il tuo tessuto emotivo e le tue capacità intellettuali. Se non provi nulla è perché non riesci a trovare te stesso in quell’opera d’arte.
Caterina Rachele Rossi
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