Opacità ed elasticità. Intervista all’artista Oscar Murillo
In mostra da Gagosian a Roma dopo un’altra mostra a Roma svoltasi lo scorso anno, l’artista colombiano racconta i suoi nuovi lavori, che indagano le simboliche cromie del rosso e il concetto di disvelamento
Gagosian inaugura a Roma Marks and Whispers, esordio in galleria del celebre artista colombiano Oscar Murillo (Mondo, 1986). La mostra, a cura dell’artista stesso e dall’evocativo titolo Marks e Whispers, presenta un cospicuo corpus di lavori, composto da opere su tela e carta, per la maggior parte di grande formato, realizzate da Murillo nel corso degli ultimi quindici anni di attività ed esposte su pareti indipendenti che, a ben guardare, si rivelano delle vere e proprie installazioni con cui il pubblico è invitato ad interagire scostando il delicato velo sul retro per esplorarne l’interno.
La mostra di Oscar Murillo a Roma
Attraverso queste strutture, l’artista è intervenuto sullo spazio espositivo attivando una serie di linee visive che conducono in maniera fluida gli spettatori da un lavoro all’altro. In un percorso che riflette sul presente attraverso il passato, riattivato concretamente dalle installazioni; testimonianze vive delle sue opere precedenti.
La mostra si completa con il cortometraggio WRAPPED (2024) che riprende una performance realizzata a Roma alla vigilia della mostra. In cui Murillo crea un fagotto con i veli delle installazioni e, dopo averlo deposto in una cassetta di plastica, lo calcia nelle strade attorno al Pantheon. Quest’opera, di cui in mostra è presente anche il simbolico oggetto di scena, secondo la pratica interrogativa e multiforme dell’artista invita a riflettere sulla natura casuale e violenta dell’incertezza. Ma lasciamo la parola all’artista che per spiegare la mostra è partito proprio dal titolo Marks and Whispers e dai concetti per lui essenziali di opacità ed elasticità.
Intervista a Oscar Murillo
Come e in quanto tempo è nata la mostra?
Il progetto, sviluppato in circa due anni, è stato costruito in sintonia con lo spazio espositivo a partire dal titolo Marks and Whispers. Mi sono lasciato ispirare dall’architettura della galleria che, con la sua forma ovale, mi ricorda un anfiteatro, in bilico tra un’arena e un’agorà, insomma, un luogo di confronto, dialogo e scambio, elementi centrali nella mia pratica artista.
Quali sono le linee guida su cui si basa la mostra?
Sostanzialmente, la mostra segue due filoni di ricerca, uno cromatico ed uno concettuale, entrambi rappresentati dall’opera Fields of spirits che, iniziata undici anni fa, nel 2013, è tutt’ora in fieri. Si tratta di un’opera che proviene dal mio archivio e che si può considerare all’origine del progetto, di cui indica il tono e la direzione mettendo in risalto i concetti di stratificazione e divenire che si legano a quelli di opacità ed elasticità; perché non tutto può e deve essere spiegato con chiarezza, alcune cose possono essere sussurrate, altre suggerite da un segno, che può assurgere a simbolo.
Cosa rappresenta Fields of spirits?
Fields of spirits rappresenta le idee di collettività di cultura condivisa. Penso che nella realizzazione di un’opera ci siano sempre molte voci coinvolte, non solo quella dell’artista. In altre parole è come se l’artista attraverso le sue opere riflettesse un sentire comune, diventando interprete del proprio tempo. Un catalizzatore di energie. Attraverso la realizzazione materiale dei lavori trasmetto non solo il mio sentire ma un’idea collettiva.
Una pratica che porti avanti da tempo…
Esatto, come alla 56esima Biennale di Venezia del 2015, anche qui voglio esprimere l’idea che, nel periodo catastrofico in cui ci troviamo l’arte e la creatività creano importanti spazi e momenti di incontro. A tal proposito, il dipinto: (untitled) Catalyst del 2017, esposto per la prima volta, rappresenta una sorta di portale che gli spettatori possono attraversare per lasciarsi il mondo alle spalle ed approcciarsi all’arte. Questo lavoro è rimasto nel mio studio per tanti anni. Poi, pensando a questa mostra ho capito che era giunto il momento di presentarlo, perché quest’opera trasmette l’idea di entrare in qualcosa; come se (untitled) Catalyst introducesse il visitatore in questo spazio, che, come ho detto, ricorda un anfiteatro.
Quindi, la galleria ti fa pensare al mondo classico?
Certo, del resto siamo a Roma. Ma questo spazio, oltre alla storia romana mi fa venire in mente quella greca, l’immagine dell’agorà come culla della democrazia, spazio dedicato alla conversazione.
Hai parlato di due filoni di ricerca, da una parte quello della comunicazione, dall’altra quello del colore rosso che è indubbiamente protagonista dell’esposizione. Ci puoi dire di più?
Il rosso è l’elemento che garantisce l’uniformità tra tutti questi interventi che appartengono a serie e periodi diversi. Costituisce il trait d’union che collega visivamente le opere in mostra, inoltre, per il suo elevato valore simbolico, a livello storico, sociale e politico funge da cassa di risonanza, amplificando la forza delle singole opere. Il rosso è da sempre il colore della ricchezza e del potere, in Cina, in oriente, nel mondo occidentale. Tanto da essere adottato anche dalla Chiesa Cattolica come emblema del potere spirituale oltre che temporale. Tutti questi significati vengono a confluire, stratificandosi, nella mostra, aprendo ulteriori possibilità di dialogo.
Poi la performance…
Sì, dopo questi momenti di apertura c’è il cortometraggio WRAPPED (2024), che richiama la drammaticità del periodo che stiamo vivendo. È un’opera dedicata a Roma e rappresenta simbolicamente la conclusione della mostra.
Il cortometraggio in cui confluisce la performance, realizzata all’alba nelle strade intorno al Pantheon, luogo denso di significato per la religione cattolica e il mondo precristiano, riprende l’idea del velo, elemento ricorrente nelle opere in mostra. Nella performance ho avvolto insieme dei teli identici a quelli che celano il retro delle installazioni e ho creato un fagotto, un oggetto indefinito all’apparenza fragile che ho deposto in una cassetta di plastica. Il velo per la sua valenza storica è carico di connotazioni simboliche, ricorda un sudario, qualcosa che protegge, cela e che, nello stesso tempo, può svelare, svolgendo una funzione rivelatrice.
Qual è il concetto cardine in WRAPPED (2024)?
Nell’atto performativo, in cui ho calciato, senza una meta definita, l’oggetto nelle strade deserte, ho evidenziato il concetto di fragilità violando fisicamente la cassetta e il fagotto ivi contenuto, manifestando la natura casuale e violenta dell’incertezza che, nella mia visione, diventa metafora della nostra civiltà. WRAPPED (2024), inoltre, per il suo valore simbolico, richiama il titolo della mostra: Marks and Whispers, in riferimento alla dimensione plurale del progetto, nella misura in cui ogni opera è il prodotto di un sentire più ampio e universale di cui io sono il tramite.
Questa dimensione collettiva ritorna anche nell’opera più piccola della mostra, giusto?
Esatto, dal significativo titolo Telegram. Un lavoro realizzato tra il 2013 e il 2024 che, installato volutamente sospeso in fondo alla sala espositiva, come se stesse per volare via, esprime pienamente la mia visione collettiva. Come indica il titolo, rappresenta uno scambio di messaggi tra una moltitudine di soggetti, in momenti diversi e si può leggere proprio come un gioco con il tempo, una conversazione in differita.
Che valore ha il vuoto per te?
In mostra anche gli spazi vuoti sono importanti. Rappresentano momenti di pausa, sospensione e riflessione; esprimono il tempo necessario all’elaborazione dei contenuti insiti nelle opere.
Proprio come il tempo di cui hanno bisogno il colore e i diversi elementi che compongono i tuoi lavori per sedimentarsi sulle tele… Com’è nata l’idea delle installazioni dietro le opere?
Le installazioni sono nate proprio dalla curiosità di intervenire sullo spazio a livello architettonico. Anche in questo caso è stato un processo in divenire, come in tutta la mia ricerca. Lavorando al progetto, che copre quindici anni di attività, ho capito che volevo realizzare dei veri e propri contenitori; simboliche casse di risonanza per accogliere ulteriori informazioni sulla mia pratica artistica. Volevo creare un modo per raccontare al pubblico qualcosa in più sulla mia ricerca.
Un ulteriore canale di comunicazione…
Ciascuno di questi vessel contiene le tracce di altri lavori. Del resto questa mostra è una retrospettiva, quindi, un’occasione per ripensare al passato. Per questo ogni installazione offre l’opportunità ai visitatori di andare più in profondità e scoprire qualcosa dei miei lavori precedenti.
Interessante questa dimensione interattiva che coinvolgendo direttamente il pubblico spinge ad una fruizione attiva della mostra…
Questo perché il mio scopo non è trasmettere un messaggio univoco, quanto piuttosto, come indica il titolo, offrire degli indizi, dei suggerimenti, per far sì che le persone sviluppino una propria idea. Inoltre, nell’assenza di legami predeterminati tra le installazioni e i quadri ritornano anche i concetti cardine di opacità ed elasticità e il tutto si risolve in un dialogo in continuo divenire, tra soggetti e tempi diversi.
Ludovica Palmieri
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati