I 10 migliori padiglioni da vedere alla Biennale d’Arte di Venezia 2024
Più di quaranta i Paesi partecipanti alla 60. Esposizione Internazionale d’Arte, tra Arsenale, Giardini e centro storico veneziano: tra questi, abbiamo selezionato un gruppetto che non si può non veder
Vedere la BiennaleArte è sempre un’epopea, tra Padiglioni Nazionali, mostra della Biennale e iniziative collaterali. Non fa eccezione l’Esposizione Internazionale 2024 guidata da Adriano Pedrosa, dal titolo Stranieri Ovunque, che invade Venezia come e più degli altri anni con 43 partecipazioni nazionali e un colossale programma di appuntamenti ed eventi. Non c’è da disperarsi però: Artribune torna in soccorso di visitatrici e visitatori con un’agile guida sui dieci padiglioni che proprio non si può non vedere.
Giulia Giaume, Helga Marsala e Alberto Villa
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Giappone – Giardini
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USA – Giardini
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Francia – Giardini
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Polonia – Giardini
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Gran Bretagna – Giardini
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Italia – Arsenale
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Malta – Arsenale
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Turchia – Arsenale
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Nigeria – Dorsoduro
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Croazia – Cannaregio
Sembra comprendere qualcosa di segreto sulla natura umana per rivelarlo solo in parte la personaleComposediYuko Mohri (Kanagawa, 1980) nel Padiglione giapponese. A cominciare dal profumo: la mostra, curata dalla direttrice artistica dell’ultima Biennale di Gwangju Sook-Kyung Lee, è pensata per “reagire” al pubblico in molti modi, anche con l’emanazione di un profumo umido di fiori. Lo spazio è un curioso mosaico di sculture acquatiche che, mutuando dall’uso giapponese di tamponare le perdite con mezzi di fortuna, deviano l’acqua in percorsi imprevedibili e a tutti gli effetti musicali: stivaletti da pioggia, ombrelli, lampadine e ventagli tracciano coreografie delicate, affiancate da frutta marcescente a cui sono collegati elettrodi per trasformare gli impulsi in musica. La bizzarra e giocosa polifonia di tutti questi elementi in una specie di “grande distillatore” risulta in una più ampia riflessione sull’equilibrio tra arte e vita.
Dimenticatevi le bicromie di Simone Leigh alla Biennale del 2022. Il padiglione statunitense diJeffreyGibson(Colorado Springs, 1972) è una festa a tutti gli effetti. Nella figura di Gibson si mischiano origini Cherokee e Choctaw (è il primo artista indigeno americano a rappresentare gli Stati Uniti alla Biennale di Venezia) e un’identità queer: due aspetti che ben emergono dalle sue coloratissime opere, alcune più leggere (come le paperelle ricoperte di perline), altre più impegnate (come quelle che includono la poesia visiva). Chiude questo padiglione dell’orgoglio un video caleidoscopico in cui alcuni danzatori inscenano una danza tradizionale indigena sulle note del duo elettronico canadeseThe Halluci Nation. Impossibile resistere.
È un mondo marino ibrido quello della personale diJulienCreuzet(Parigi, 1986) al Padiglione Francia, che in ogni sua parte è un omaggio diretto all’eredità caraibica dell’artista. Sulle pareti rimbalzano i versi delle sue poesie in francese creolo della Martinica – da cui il lunghissimo nome della mostra,Attila cataracte ta source aux pieds des pitons verts finira dans la grande mer gouffre bleu nous nous noyâmes dans les larmes marées de la lune–, impigliandosi nelle fitte trame delle sculture appese ai soffitti. Sono queste grandi reti colorate, intrecciate e annodate, a scandire il ritmo spaziale del Padiglione, costellato di schermi su cui corrono non-stop dei video di “simulazioni” sottomarine dal gusto futuristico e dai colori vividissimi. Una visione ultraterrena.
Senza dubbio fra i padiglioni nazionali più toccanti c’è quello polacco, che invita il collettivo artistico ucrainoOpen Group. La mostra, intitolataRepeat after Me II, è composta da due video che mostrano i rifugiati della guerra in Ucraina replicare vocalmente i suoni di proiettili, colpi di cannone, sirene ed esplosioni, accompagnati da un testo che descrive un’arma letale. Rumori fin troppo noti ai protagonisti del lavoro di Open Group, inquietantemente enfatizzato dall’accostamento a una serie di microfoni, a suggerire la possibilità di un karaoke, sulle note di quella che la curatriceMarta Czyżdefinisce “la colonna sonora di una guerra”.
Allacciandosi alle scelte di altri padiglioni, e portandoli all’ennesima potenza, sono due i cuori della personale dell’artista e regista anglo-ghaneseJohn Akomfrah (Accra, 1957) nel Padiglione Gran Bretagna: l’ascolto come forma di attivismo e l’importanza dell’acqua. Lanciata da una performance canora rastafariana, la mostraListening All Night to the Rainè uno studio in cinque Canti (e altrettanti continenti) dedicato alle memorie e al portato culturale delle persone che rappresentano la “diaspora inglese”: un bricolage sonoro che accosta l’acqua e la musica alle diverse esperienze culturali, riscrivendo la storia (e il colonialismo).
Quello nato dalla collaborazione tra l’artista Massimo Bartolini (Cecina, 1962) e il curatore Luca Cerizza è un padiglione sofisticato. Per nulla sovraccarico, bensì semplice eppure profondo, Due qui/To Hearè un inno all’importanza dell’ascolto e della pausa, è un approdo che non spettina ma conforta il visitatore (reduce dalla sempre oberante visita dell’Arsenale). Lo spazio – tripartito – è percorribile partendo sia dall’ingresso principale (che introduce alla statuetta di un pensatore Bodhisattva seduta al principio di una lunghissima canna d’organo) sia dal Giardino delle Vergini, concepito come ulteriore ambiente del padiglione. Nello spazio centrale, un labirinto di tubi metallici per ponteggi, modificati affinché suonino come un organo, culmina in una vasca circolare che contiene un’onda che armonicamente ripete se stessa.
La personale di Matthew Attard(Malta, 1987), I will follow the shipè una riflessione tesa tra passato e futuro: omaggiando gli antichi graffiti navali di Malta, l’artista attua una reinvenzione tecnologica della tecnica del disegno con l’ausilio di un eye-tracker, un tracciatore di movimenti oculari (da cui il nome, che gioca sull’ambiguità I/eye) che compone il disegno a partire dallo sguardo di Attard. Il confine tra umano e macchina sembra scolorire fino a svanire: nei grandi pannelli video che riproducono in tempo reale le “scarabocchiate” navi maltesi c’è uno speranzoso mondo di cooperazione tecno-umana.
ÈGülsünKaramustafa(Ankara, 1946) a rappresentare la Turchia alla 60. Biennale di Venezia. Artista tra le più affermate del suo paese, Karamustafa è interessata ai processi di modernizzazione della Turchia, che implicano migrazione, questioni di identità sessuale e di genere. Il suo intervento al padiglione turco, intitolatoHollow and Broken: A State of the Worldindaga le dimensioni di rottura e svuotamento che dalla guerra si riflette sull’assenza di valori, sulla fragilità delle relazioni umane. Tra le opere più magnetiche dell’installazione, i lampadari realizzati con frammenti di vetro veneziano e decorati con del filo spinato: una soluzione che unisce eleganza e riuso, orrore della guerra e bellezza.
Un’impresa colossale ilPadiglione della Nigeriain Dorsoduro. I due piani – più uno ammezzato – di Palazzo Correr diventano l’inno corale di un Paese che osa pensarsi diverso, senza rinunciare a mostrare criticità e ferite ancora aperte.Nigeria Imaginaryè uno sforzo collettivo (ispirato al laboratorio di idee Mbari Club di Ibadan del 1961) che individua con precisione chirurgica i punti di intervento da cui lavorare per ripristinare laagencye la modernità nera e africana. E lo fa raccogliendo manufatti della storia locale, riletti e contestualizzati, giustapposti a nuove e impressionanti installazioni, dipinti a tutto soffitto, foto e allestimenti interattivi (chiedete l’iPad per capire gli strumenti musicali esposti al primo piano). Fondamentali le opereBlackwood: A Living Archive,con la sua parete di manganelli, realizzata per la Biennale da Ndidi Dike, e ilMonument to the Restitution of the Mind and Soul, opera commissionata l’anno scorso dal Museum of West African Art a Yinka Shonibare sulle razzie dell’antico Benin. C’è tantissimo da imparare.
Un progetto relazionale e processuale quello del padiglione Croazia. L’artistaVlatka Horvat, senza retorica e con estrema pulizia formale, trasforma in occasione espositiva una trama complessa di incontri, immagini, sguardi, sparendo parzialmente in favore di un’idea di collettività progressiva: il temaStranieri Ovunque diventa una sincera esperienza di incontro e accoglienza. Con un’estetica semplice ed efficace Horvat espone piccole opere bidimensionali di artisti di ogni nazionalità, accomunati dall’essere in diaspora, residenti in un Paese non proprio. A loro risponde inviando in dono una sua opera-collage realizzato in loco. La grande macchina di scambi, logistica, consegne e spedizioni avviene unicamente tramite mani di persone amiche o conoscenti, venendo documentata passo passo e poi presentata accanto alle opere stesse che partono o arrivano. L’artista resterà a Venezia fino alla fine della Biennale, abitando dentro al padiglione, continuando ad alimentare questo archivio apparecchiato su eleganti display minimalisti in legno chiaro in uno spazio aperto su un giardino grazie a grandi vetrate. Una grande opera fatta di decine di opere in movimento, cercando nuove efficaci strategie per fare comunità. Documentando tutto.
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Giappone – Giardini
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USA – Giardini
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Francia – Giardini
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Polonia – Giardini
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Gran Bretagna – Giardini
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Italia – Arsenale
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Malta – Arsenale
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Turchia – Arsenale
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Nigeria – Dorsoduro
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Croazia – Cannaregio
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