“Stranieri Ovunque”: una mostra senza grandi sorprese alla Biennale d’Arte di Venezia 2024
Pregi e difetti della mostra di Adriano Pedrosa alla 60. Biennale di Venezia: una celebrazione dello straniero in tutte le sue conformazioni. Ma è abbastanza?
Nella nostra intervista ad Adriano Pedrosa, qualche mese prima dell’inizio della sua Biennale, gli avevamo chiesto se la retorica dello straniero sia ancora necessaria per parlare di diversità: la sua non risposta (o meglio, il suo parlare di “punti di vista”) ci era sembrata eloquente. Stranieri Ovunque è una Biennale che celebra lo straniero, in tutte le sue possibili conformazioni: da chi proviene dal Sud globale (quindi non dai Paesi occidentali) a chi fa parte della comunità queer, il pregio di questa Biennale è l’essere riuscita a dare una voce consistente, senza precedenti nella storia di questa istituzione e in linea con la traiettoria tracciata dal presidente uscente Roberto Cicutto, a oltre trecento artisti appartenenti a contesti sottorappresentati dal sistema dell’arte; in una parola, agli outsider. Se è (quasi) una novità per la Biennale di Venezia, non lo è tuttavia per altre grandi manifestazioni come documenta a Kassel, che da più di vent’anni (e in particolare dalla sua undicesima edizione, curata dal compianto Okwui Enwezor nel 2002) esplora il tema del decolonialismo. Ma veniamo al sodo, per capire se la relativa originalità del tema selezionato sia supportata dagli artisti e, soprattutto, dalle opere.
“Stranieri Ovunque”. La mostra di Adriano Pedrosa alla Biennale di Venezia
Nonostante sia la scritta al neon “Foreigners Everywhere / Stranierə Ovunque” di Claire Fontaine a introdurre la mostra alle Corderie dell’Arsenale (così come al Padiglione Centrale dei Giardini), è poco dopo che appare quello che è facile definire il vero manifesto di questa Biennale: un’imponente opera di Frieda Toranzo Jaeger include le grandi tematiche (e le tecniche) attorno a cui ruota la mostra di Pedrosa. Pittura e ricamo sono infatti al centro dell’opera di Toranzo Jaeger, per raccontare le istanze del decolonialismo, dell’amore non dicotomico, della libertà dei popoli: non mancano, infatti, riferimenti più o meno espliciti alla causa palestinese. Procede così su queste direttive Stranieri Ovunque, esplorando lo straniero nella difficoltà ma anche nella ricchezza della sua condizione. Se in certi brani, in particolare all’Arsenale, sembra di venir catapultati indietro nel tempo all’edizione 2022 curata da Cecilia Alemani, la stessa sensazione non può essere riscontrata riguardo ai video: troppi e dispersivi due anni fa, pochi e curati in questa edizione. A partire dal validissimo Disobedience Archive di Marco Scotini, che meriterebbe un articolo a sé: decine di filmati che raccontano la disobbedienza civile sono presentati simultaneamente, ma il brusio audio-visivo che pervade la stanza scompare quando ci si concentra su un singolo video, grazie a un allestimento attento a evitare la sovrapposizione e la cannibalizzazione dei contenuti. Sempre all’Arsenale si segnalano i filmati VOID del filippino Joshua Serafin e Torita-encuetada del nicaraguense Elyla, entrambi dedicati all’esplorazione dell’identità queer attraverso performance che coinvolgono il corpo in maniera rituale, seppur con accezioni rispettivamente fantascientifiche e tradizionali. Al Padiglione Centrale dei Giardini spicca invece la proiezione Gaddafi in Rome: Anatomy of a Friendship, in cui Alessandra Ferrini esplora i riflessi contemporanei del passato colonialista italiano a partire dalla documentazione relativa all’incontro tra Muammar Gheddafi e Silvio Berlusconi nel 2008.
“Stranieri Ovunque”. Il nucleo storico, sulle orme di un nuovo modernismo
Fra i maggiori pregi della mostra c’è il cosiddetto nucleo storico: tre sezioni che servono da punto fermo di un processo di rilettura del passato da un punto di vista non occidentale. Ai Giardini, le sezioni Astrazioni e Ritratti raccolgono le esperienze di un Novecento finora non considerato, se non alle latitudini in cui si è sviluppato. Opere di artisti e artiste provenienti da contesti asiatici, africani, centro-sudamericani e oceanici dimostrano la necessità di ripensare le coordinate (geografiche e temporali) del modernismo. Se Astrazioni e Ritratti soffrono di allestimenti infelici, che ricalcano vetuste e poco valorizzanti quadrerie, non si può dire lo stesso della sezione del nucleo storico ospitata all’Arsenale e intitolata Italiani Ovunque: le opere di artisti italiani che hanno trovato casa all’estero, delineando quella che fu (e che è tuttora) una vera e propria diaspora, sono esposte su pannelli in vetro trasparente, recuperando un allestimento progettato da Lina Bo Bardi proprio per il Museu de Arte de São Paulo in Brasile (di cui Pedrosa è direttore). Tra le altre, un’opera di Domenico Gnoli che mostra la suola di una scarpa (una parte solitamente invisibile, che fa riecheggia l’invisibilità storica di molti degli artisti esposti in mostra e quella del retro delle opere, reso visibile proprio dai supporti vitrei) e un dipinto di Umberto Giangrandi in cui a una natura morta fanno da sfondo un cielo plumbeo e un amplesso, forse d’amore, forse di violenza.
“Stranieri Ovunque”. Tanta pittura, poca tecnologia
La mostra di Pedrosa è allineata anche ai riverberi (o agli scheletri) transavanguardisti che caratterizzano il presente dell’arte contemporanea internazionale. Al di là della sua prevedibile ingenza nel nucleo storico, la pittura pare continuare a essere il medium favorito della stragrande maggioranza degli artisti selezionati, non solo al Padiglione Centrale dei Giardini, ma anche all’Arsenale, dove gli spazi potrebbero favorire (com’è successo in passato) interventi di natura maggiormente installativa. Della pittura è certamente apprezzata l’immediatezza con cui permette di veicolare temi quali l’identità, la sessualità, l’appartenenza culturale. È il caso dei bei dipinti dello statunitense Louis Fratino, manifesti di una queerness tenera e audace al tempo stesso, a pochi passi dalle opere di Filippo de Pisis. Tela e pennello replicano inoltre un sentimento, se vogliamo, “anti-tecnologico” che ricorre in tutta l’esposizione: anche nelle opere maggiormente installative, dove potrebbero trovare spazio soluzioni meno analogiche, si preferiscono medium più tradizionali (come il tessuto) o comunque materiali di recupero, come nella grande struttura realizzata da Daniel Otero Torres. Pare dunque essere suggerito un legame a doppio filo tra la condizione di straniero e il generico rifiuto della tecnologia (o la maggiore vicinanza al dato naturale). Da un lato non può che essere così, proprio per aspetti culturali che rendono le popolazioni indigene generalmente più attente al territorio che abitano, influenzando in questo senso le pratiche dei loro artisti; dall’altro è rischioso presentare così veementemente la distanza dello straniero dalla tecnologia, soprattutto in un’epoca in cui Internet, i social network e l’intelligenza artificiale giocano un ruolo chiave anche nelle riflessioni postcoloniali, anticapitaliste e antipatriarcali (tra i tanti nomi eminenti in materia, quelli di Donna Haraway e di Rosi Braidotti).
“Stranieri Ovunque”. I limiti della mostra di Adriano Pedrosa
Tutto sommato, quella di Pedrosa è una Biennale priva di grandi sorprese. I temi della diversità e dell’estraneità sono affrontati in maniera trasversale ma di certo non avanguardistica, rendendo Stranieri Ovunque una mostra terminale, più che germinale. Forse era l’occasione – l’ultima, prima di un mandato presidenziale che verosimilmente non avrà le stesse accortezze in termini decoloniali e queer – per trattare la diversità da un punto di vista innovativo. Era l’opportunità, per la Biennale, di porsi come esempio di inclusione senza il bisogno di giustificazioni. Il dubbio con cui siamo entrati è rimasto: finché lo straniero sarà riconosciuto nella sua condizione di straniero, l’orizzonte dell’inclusione sarà a distanza. Rendere visibili gli invisibili è un intento nobile, ma limitato nella sua capacità di costruire cambiamento se è l’invisibilità la ragione di tale attenzione. Una medesima e pluralistica selezione degli artisti partecipanti avrebbe potuto avere un impatto decisamente maggiore se non fosse stata “giustificata” meramente dall’appartenenza a contesti sottorappresentati. Quello che è certo è che il Padiglione Centrale così colorato (merito del collettivo indigeno brasiliano MAHKU) è proprio bello.
Alberto Villa
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