L’impronta umana sul paesaggio. La mostra di Edward Burtynsky a Mestre
Oltre 80 scatti e un’installazione immersiva di Edward Burtynsky al Museo M9 di Mestre raccontano un Pianeta irreversibilmente modificato dall’industrializzazione
Caratterizzata dall’impatto irreversibile dell’uomo sull’ecosistema e sul paesaggio naturale, l’era geologica in cui viviamo oggi prende il nome di Antropocene. A partire dai processi industriali novecenteschi, le azioni intraprese dall’essere umano, guidate da un’inarrestabile spinta accelerazionista, hanno portato alla modificazione radicale della conformazione terrestre, all’estinzione di intere specie animali e vegetali e al collasso di interi ecosistemi. Ma fino a che punto l’intervento umano è responsabile di questa rottura? Per comprenderlo a fondo, non c’è modo più efficace che osservarlo con i propri occhi.
La mostra di Edward Burtynsky, dal Regno Unito all’Italia
Per questo motivo, ormai da decenni, il fotografo canadese Edward Burtynsky (St. Catharines, 1955) immortala attraverso immagini aeree (talvolta rielaborate) le “incursioni industriali su larga scala nel pianeta”. A lui è dedicata la seconda grande mostra dell’M9 – Museo del ’900 di Mestre sotto il mandato della neo-direttrice Serena Bertolucci. La retrospettiva BURTYNSKY: Extraction / Abstraction – curata da Marc Mayer, con progetto allestitivo di Alvisi Kirimoto – arriva in Italia dopo il fortunato debutto alla Saatchi Gallery di Londra: si tratta della più ampia esposizione mai realizzata sugli oltre quarant’anni di carriera del fotografo, che assume un significato ancora più profondo in relazione alla storia industriale della città veneta.
Edward Burtynsky in mostra all’M9 di Mestre
Il percorso espositivo riunisce oltre 80 fotografie di grandi dimensioni e si suddivide in sei sezioni tematiche che illustrano il mutamento della superficie terrestre negli ultimi decenni provocato dall’impatto dell’inquinamento o dal lavoro nelle fabbriche, passando per l’agricoltura. Un esempio? La Stazione Geotermica del vulcano Cerro Prieto a Sonora, in Messico, dove Burtynsky si reca nel 2012 scattando delle immagini estremamente suggestive dal punto di vista formale, che immortalano il sistema di trivellazione e, soprattutto, i laghi artificiali che circondano la stazione, che permettono ai minerali di depositarsi e all’acqua di essere riciclata. O ancora, l’indagine sul settore manifatturiero in Cina, portata avanti nei primi anni Duemila, come osserviamo negli scatti del Pollificio Deda, in provincia di Jilin.
La responsabilità dell’uomo nei confronti del pianeta
Il più delle volte, spiega Burtynsky ad Artribune, “non si tratta di posti dove si sarebbero altri motivi per recarsi, ma le località sono segnalate nel corso della mostra per dare maggiore spessore alla storia che le riguarda. Anche nei miei film”, prosegue l’artista, “c’è lo stesso intento, il tentativo di andare oltre, di far connettere le persone con i temi che non cosi importanti, e vedere finalmente il collegamento tra le decisioni che intraprendiamo e la sopravvivenza del Pianeta”. Oltre alle gigantografie, troviamo anche l’installazione immersiva basata sul pluripremiato cortometraggio In the Wake of Progress (2022), coprodotto da Burtynsky assieme al celebre produttore musicale Bob Ezrin e con le musiche originali del compianto Phil Strong. Attraverso una raccolta pluridecennale dei lavori dell’artista dalla durata complessiva di 30 minuti, l’opera multimediale testimonia l’impatto dell’industria umana sul pianeta.
La perdita della biodiversità negli scatti Edward Burtynsky
Nonostante ciò, Burtynsky non si reputa un attivista ambientale, ma si sofferma soprattutto sulla qualità astratta e formale dei suoi scatti. Questo anche perché, confessa con un sorriso il fotografo, “ho sempre uno sguardo più ampio che evita l’accusa personale”. E aggiunge: “Quando ho cominciato il mio lavoro nei primi Anni Ottanta, la discussione sul cambiamento climatico era solo sullo sfondo, io ero più interessato ai temi come la perdita della biodiversità, e l’espandersi dell’agricoltura come elemento principale della trasformazione della terra come la conosciamo. Quindi, pur non avendo mai avuto il cambiamento climatico al centro del mio lavoro, è sempre stato un aspetto intrinseco della mia ricerca”.
Laura Cocciolillo
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