Luca Pancrazzi. Poesia in forma di pittura nella mostra a Palermo
Artista con un bagaglio importante e una ricerca raffinatissima, Luca Pancrazzi arriva a Palermo per una mostra personale da RizzutoGallery. Paesaggi naturali e scorci urbani, restituiti con una pittura imbevuta di poesia
Osservare la luce del giorno attraverso le foglie di un albero e farne occasione di meditazione, ipnotica via d’accesso al mistero delle cose, scivolando tra le pieghe del grande incastro generativo: la cifra dell’Essere e del Non essere, la sovrapposizione necessaria e dialettica tra vita e morte, opposte, indivisibili, come l’oggetto illuminato e la sua ombra proiettata al suolo. I Giapponesi hanno una sola parola per questa esperienza dell’occhio e dello spirito: komorebi. La luce, la natura, la contemplazione come meccanismo spontaneamente indotto da un semplice caleidoscopio di baluginii e uno stormire di fronde nel sole.
La mostra di Luca Pancrazzi a Palermo
Luca Pancrazzi (Figline Valdarno, 1961. Vive a Milano), tra gli artisti italiani più significativi della generazione emersa negli Anni Novanta, presente a Palermo con una personale da RizzutoGallery, battezza con questo suggestivo termine alcuni lavori della sua nota serie di acrilici bianco su bianco: finestre pittoriche intese come manifestazioni di luce, bagliori in cui cercare le sottili modulazioni atmosferiche che, nell’arco di un tempo idealmente condensatosi su tela, definiscono la sostanza dell’aria e disegnano il contorno instabile delle immagini.
Pigmento bianco impastato al gesso per preparare la tela e poi per dipingerci sopra, spingendo il fondo verso l’immagine stessa che emerge, e viceversa. Paesaggi, nature morte. Là dove la pittura manca il neutro si declina di nuovo per opposti: i toni più scuri del vuoto sono essi stessi pittura, ovvero materia visiva e costruttiva, lavorando ancora sull’infinitesimale, sul rapporto tra lo zero e il tutto, sui gradienti e le vibrazioni. Pittura retinica, umbratile, pulviscolare, in cui filosofia, fenomeni ottici e pura poesia sembrano coincidere.
Pittura e poesia nelle opere di Luca Pancrazzi
Ut pictura poësis, è il caso di dire, riprendendo la fortunata locuzione latina del poeta Orazio, anticipata da quel detto di Simonide di Ceo (VI -V secolo a.C.) riportato da Plutarco: “Dixit Simonides picturam esse poesim tacentem, poesim picturam loquentem”, ovvero la pittura è “una poesia muta, e la poesia una pittura parlante”. Non banalmente e romanticamente una maniera poetica di dipingere, ma, come nel caso di Pancrazzi, la capacità di concepire la dimensione pittorica come epifania, scrittura fatta d’illuminazioni, scavando tre le maglie del pensiero e del linguaggio, oltre che delle forme e del pigmento.
Le immagini fuori registro di Pancrazzi
Una folgorazione che mette a nudo il reale e lo restituisce all’occhio modificato, esteso, alterato, dischiuso sull’invisibilità e su certe profondità comunemente non colte dallo sguardo. Eccolo il “fuori registro” che per l’artista è concetto chiave, utilizzato come titolo di alcune opere e in mostra trasformato in tautologia dipinta, con un grande dittico d’apertura: due parole, due finestre, diversi toni di bianco, aperture di senso e di spazio. È fuori registro l’immagine non allineata, sfalsata rispetto al suo referente concreto; è l’eterno ritorno dell’eguale, in un cerchio in cui s’insinua la differenza ad ogni giro; ed è quel doppio che contempla l’errore, lo scarto, l’inesatta sovrapposizione. Dunque racconto che non è cronaca ma letteratura, pittura che non è mimesi ma reinvenzione.
Quella di Pancrazzi è un’intrigante dimostrazione di come immagine poetica ed evocazione pittorica possano mischiare le proprie molecole, miracolosamente, per vie sinestetiche mai del tutto spiegabili col ragionamento. E a proposito di termini giapponesi, non sono forse i suoi paesaggi dei piccoli haiku? Rapide poesie, la cui grammatica esatta articola e governa la complessità caotica della natura, conservandone qualche grammo d’infinito. Luoghi incontaminati, periferie antropizzate, zone industriali, porzioni di territorio che cuciono metropoli e spazi selvatici.
Definiti nella ruvida concretezza del colore, eppure scavati nel bianco di una “metafisica schiarita” – per citare un celebre saggio di Calvesi – i lavori su carta, tela o fotocopia sembrano colti in un’avvincente en plein air ma poi spinti verso l’astrazione (come quelli costrutti con un rigoroso pointillisme, tra piccoli fori o tocchi rotondi di colore).
Così è nella splendida quadreria allestita in una delle sale: la sequenza di 14 carte mescola scorci urbani, frammenti di vegetazione, scene di traffico cittadino, automobili, reti da cantiere, alberi e ancora alberi, segmenti d’orizzonte, gallerie buie, fitti boschi intercettati da scintille di luce, esplosi nel rosso incendiario di un tramonto o precipitati nel nero-grigio del crepuscolo, della notte, dei sogni stessi. Istantanee, è il caso di dire: nonostante quello scarto, quel fuori registro che unisce e divide immagine e realtà, ci si trova dinanzi a qualcosa che a questa realtà corrisponde, quasi per un atto magico d’impressione chimica o spirituale.
Opere d’arte tra pittura, poesia, fotografia
Ed è proprio la fotografia il terzo attore di questa storia. Un altro riferimento importante per Pancrazzi, che continua a raccogliere e catalogare centinaia di immagini fotografiche, tenendo vivo un archivio sterminato, un serbatoio di documenti e riferimenti con cui nutrire il disegno e la pittura.
I fili continuano dunque ad annodarsi lungo quest’ipotesi di relazione intima tra immagine e poesia, che nel caso dello scatto fotografico assume ulteriori significati, ridestando il tema del fantasma, l’eco della morte, l’attimo rubato al flusso del tempo cronologico e la sua eternizzazione, la percentuale di casualità contemplata nella registrazione di frammenti in movimento, infine le acrobazie dello sguardo che penetra nel micro, si allontana nel macro, si muove lungo linee oblique, sotterranee, panoramiche, non naturali. Un potenziamento dell’occhio, affidando all’arte, ancora una volta, una funzione estensiva e rivelatrice rispetto al piano della realtà e della quotidianità. In fotografia, come in pittura, come nella poesia. Slittano gli uni verso gli altri i codici ed i segni, con le loro specificità, tramutandosi in luce possibile nell’incanto del gesto artistico e nella sua lenta, metodica costruzione, fra pensiero e linguaggio.
Helga Marsala
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