La Biennale dei “deboli”. A Venezia si snocciola una mostra di biografie
Le vite degli artisti nella Biennale di Pedrosa testimoniano di una relazione diversa, divergente e alternativa con il mestiere dell'artista in quanto creatore di bellezza, di senso e di meraviglia
Nella sua ultima fase di lavoro e di vita Gianni Vattimo elabora il suo “pensiero debole” come “pensiero dei deboli”, assumendo che nei paesi del primo mondo non vi sia futuro per un pensiero che non sia un atto di forza sul reale (l’adaequatio rei et intellectus di San Tommaso) sotteso da una volontà di dominio e di controllo chiamata “realismo”. Assumendo il concetto s-fondante heideggeriano di verità, il filosofo torinese è noto per l’ideazione di un pensiero postmoderno antimetafisico che non ha più nella verità scientifica il suo modello privilegiato di verità e che perviene ad un’etica della tolleranza, stigmatizzata come relativismo nichilistico dai difensori dei dogmatismi politici, religiosi e scientifici. Essendo insostenibile (soprattutto eticamente) quella verità che pretende di essere unica, oggettiva, immutabile ed eterna, la verità indebolita e plurale di Vattimo appare oggi più come l’esercizio di un’arte: quella del dialogo con la storia, dell’ascolto dei deboli, dell’interpretazione e della comprensione.
La mostra di Pedrosa e il rapporto tra arte e verità
In questo scenario teoretico, l’ultimo Vattimo sceglie la prassi politica a favore di un “comunismo ermeneutico” fondato sulla solidarietà ed il riconoscimento dei diritti. Si apre al “pensiero dei deboli” passando da una filosofia dell’ascolto dell’essere, inteso come orizzonte di senso che si dà storicamente nelle diverse epoche, ad un ascolto degli esseri: voci che aspirano all’emancipazione e che meriterebbero una propria libertà economica, politica, etico-morale e culturale. Voci che soprattutto aspirano a vivere in un mondo “proprio”, quello che loro appartiene per diritto di nascita e non di conquista.
Ed è qui che questa Biennale diasporica degli Stranieri Ovunque diventa interessante, perché “illustra” quel pensiero dei deboli che propone altri modelli di verità. In questa Biennale appare evidente il legame ontologico tra arte e verità in quanto autenticità, intesa heideggerianamente come ciò che è proprio. Se è vero che ogni opera d’arte è un’apertura di mondo anche i deboli, gli stranieri ovunque, fanno arte e questa Biennale ci pone di fronte all’arduo compito di dover riconoscere la loro arte come il segno di un’ontologia plurale, per dirla con Philippe Descola, celebre antropologo allievo di Lévi-Strauss.
L’arte altra alla Biennale di Venezia
Giungiamo così ai confini della nostra cultura, fatta di educazione artistica accademica e di pensiero estetico in cui il bello e l’arte sono continuamente ri-definiti e riaffermati in un processo evolutivo che procede per negazioni, rivoluzioni, rotture e strappi. Tendiamo pertanto a considerare l’arte non occidentale e tradizionale soltanto folk, popolare, indigena ed esotica, ma nel grande primigenio Sud del mondo esplorato dal direttore Adriano Pedrosa è il modernismo a rappresentare l’esotico e finisce nel cuore del padiglione centrale come dentro una voliera. Pedrosa crea altre “riserve” per l’arte modernista: mostra i ritrattisti del sud ed espone gli artisti italiani diasporici del XX Secolo, nelle Glass Easels di Lina Bo Bardi. Ma la sostanza di questa Biennale è la massa di dipinti e tessuti di un’arte altra, non appresa necessariamente nelle accademie e non riconosciuta come arte, fino ad oggi. Pedrosa installa le opere come in un museo, facendo dell’Arsenale una lunga galleria che sa un po’ di museo antropologico, ma il senso di questa Biennale è altrove, risiede in ogni singola opera, che va vista per se stessa. In ognuna si cela un concetto di bellezza che non può essere il medesimo tra nord e sud, tra mondi quasi inconciliabili per i diversi modi di vivere, i modi opposti di costruire il mondo attraverso valori, verità e fatti che diventano espressione di un (altro) modo di darsi dell’essere.
La Biennale di Venezia: una mostra di biografie
Conclude Pedrosa: “Credo che quella che stiamo offrendo sia una bellezza straniera, strana, inquietante, e queer”. Per capirla dobbiamo indossare un altro sguardo, riconfigurare il nostro ideale di bellezza, ridiscutere con l’alterità la nostra posizione nel mondo, magari cercando lo straniero che abita in ciascuno di noi. Se i nativi credono negli spiriti e nelle forze che animano la natura dovremmo forse ascoltarli, tentare di comprendere le loro ragioni, ormai per noi “deboli”. Ma ascoltando la loro flebile voce potremmo capire che, come loro, anche i nostri padri greci e romani hanno considerato il mondo come affollato di dèi, di anime degli antenati, di spiriti e creature sovrannaturali o ctonie di ogni genere e specie; esattamente come nel Giappone antico, in Cina, India, Egitto, Persia e nelle civiltà di ogni latitudine e longitudine. Al punto che appare chiaro come il mondo industriale e laico, abbandonato dal sacro e dalla trascendenza, sia in verità un atollo dentro la Storia dell’umanità, un’isola dentro un oceano di storie che proprio questa Biennale racconta, riprendendo miti autoctoni e tradizioni orali, in una mostra che è fatta anche, e soprattutto, di biografie. Le vite degli “artisti deboli” testimoniano di una relazione diversa, divergente e alternativa con il mestiere dell’artista in quanto creatore di bellezza, di senso e di meraviglia. Se questa Biennale funzionerà sarà perché ci avrà permesso di toccare l’alterità profonda di una pluralità di ontologie (sensi dell’essere) capaci di insegnarci il vero ascolto: quello che si dedica non alle voci per noi familiari ma a quel sussurro che ci appare alieno.
Nicola Davide Angerame
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