La storia dell’israeliano Menashe Kadishman e della sua opera contro la guerra
Con questa intervista esclusiva alla figlia Maya, si completa la storia dell’opera-manifesto antimilitarista Shalechet e del suo artista. Un racconto potente da non dimenticare
“In guerra, una vittoria è anche una sconfitta. Non ricordo la mia vita e il mio paese senza guerre”. Con queste parole, l’artista israeliano Menashe Kadishman ha espresso il suo profondo senso di tristezza nei confronti dei conflitti che hanno segnato il suo Paese. Nel 2001 installò Shalechet al Museo Ebraico di Berlino, un’opera che rappresenta il sacrificio di tutte le vite umane. Ripercorriamo qui tutta la sua storia, approfittando delle parole della figlia, Maya Kadishman, che abbiamo intervistato in esclusiva.
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Il titolo dell’opera Shalechet di Menashe Kadishman
“Si sta come | d’autunno | sugli alberi | le foglie”. Scritta da Giuseppe Ungaretti nel 1918, la poesia Soldati racconta l’esperienza in trincea del poeta. “L’associazione delle foglie alle persone avviene tanto più naturalmente poiché è un’identificazione antica” – osservò Arturo Schwarz – in quanto “La foglia ha origine dalla madre terra e quindi è spesso stata assimilata all’uomo, come nel toccante poema di Ungaretti”. Sarà per questo motivo che l’artista israeliano Menashe Kadishman (Tel Aviv, 1932 – Tel HaShomer, 2015) intitolò la sua più celebre installazione Shalechet, che in ebraico significa “Foglie cadute”. La scultura-environment dal 2001 è visibile in uno dei Memory Void – spazi vuoti e stretti, alti circa 20 metri – del Museo Ebraico di Berlino. Un edificio a forma di Stella di David decostruita progettato da Daniel Libeskind.
L’opera Shalechet di Menashe Kadishman
Oltre ventimila dischetti di ferro, tagliati a fiamma da lastre di acciaio di 2-8 centimetri, assumono la forma di teste rotonde e ovali, grandi la metà di una testa umana. Ogni disco è perforato quattro volte: così appare un volto con la bocca spalancata, due occhi stretti e un naso. Un’osservazione più ravvicinata rivela la presenza – là dove il metallo fuso si è indurito – di segni simili a rivoli di sangue, rughe sulla pelle, tagli da coltello e incrostazioni che sembrano l’effetto postumo di continui maltrattamenti. Il modo in cui Shalechet è stata installata coinvolge l’osservatore come un colpevole attivo, chiedendogli insistentemente di camminare sopra questo mare infinito di urla. I passi incerti dei visitatori generano un suono stridente, un gemito metallico simile al rumore delle catene. Kadishman ci invita a scendere con lui all’inferno per vivere questa esperienza angosciante, confermando quanto scritto da Dante: “Ora incomincian le dolenti note | A farmisi sentire; or son venuto | Là dove molto pianto mi percuote” (Inferno, Canto V, v.25).
L’opera Shalechet di Menashe Kadishman nella storia dell’arte
Per Marc Scheps, l’impatto che ha avuto Shalechet è paragonabile solo a quello di Guernica di Picasso, “con la differenza che il dipinto del maestro catalano fu creato come reazione a un tragico e noto massacro avvenuto durante la guerra civile spagnola, mentre la scultura di Kadishman riguarda tutti i massacri”. Anche Ulrich Schneider si soffermò sul valore universale di questa installazione: “Per Kadishman è importante che Shalechet non venga visto come un memoriale dell’Olocausto ma come un ricordo per tutte le vittime. Il suo significato è quello di trasmettere un messaggio di speranza”.
Il Sacrificio di Isacco nell’opera Shalechet di Menashe Kadishman
Le Foglie cadute di Berlino rappresentano il risultato di un processo di riduzione minimalista iniziato nel 1982, anno in cui Kadishman attraversò un periodo di crisi causato dalla morte di sua madre e dalla partenza del figlio Ben per la Prima Guerra del Libano. Per esprimere meglio i sentimenti che lo tormentavano, si rivolse al mito biblico del Sacrificio di Isacco. Dieci anni prima, nel 1972, lo scultore George Segal gli aveva chiesto di fare da modello, insieme al figlio, per una delle sue situational sculptures in gesso. L’opera rappresentava il passo biblico in cui Abramo è pronto a sacrificare Isacco: un’immagine che si rivelò tristemente premonitrice sia per Kadishman che per l’intero popolo israeliano. Cinque mesi dopo scoppiò la guerra del Yom Kippur, caricando inevitabilmente la scultura di significati politici e sociali. L’immagine del Sacrificio di Isacco divenne un simbolo dei venti di guerra: la vista del padre, pronto a immolare il proprio figlio, fu paragonata alle famiglie che mandavano i loro figli in battaglia. Partendo da questa riflessione, Kadishman invertì radicalmente la struttura del mito, eliminando completamente la figura di Abramo e decidendo di sacrificare Isacco al posto dell’ariete. Il suo minimalismo figurativo gli ha permesso di creare una delle opere più potenti (e antimilitariste) dell’arte israeliana, condensando in un’unica scena tre elementi simbolici di grande intensità: destino, sacrificio e lutto.
Tutta la storia di Menashe Kadishman
La tragica storia familiare di Menashe Kadishman
Tra il 1920 e il 1925, i genitori di Kadishman fuggirono in Palestina per salvarsi dai pogrom bolscevichi. Meno di vent’anni dopo, tra il 27 il 28 agosto 1941, la zia materna perse tragicamente la vita durante il massacro nazista di Kam’janec’-Podil’s’kyj. Fu fucilata e barbaramente gettata in una fossa comune insieme ai suoi figli e ad altri 23.600 ebrei. La vita di Menashe è stata profondamente segnata da questi eventi. L’arrivo in Israele dei sopravvissuti alla Shoah riportò quel bambino di Dizengoff Street a confrontarsi nuovamente con il dramma della storia. Nonostante le cicatrici lasciate da quelle tragiche vicende, l’amore della sua famiglia gli permise di preservare intatta la purezza dello spirito dell’infanzia e di sviluppare la sua naturale vocazione per la scultura.
Tra Galilea e guerre
Nel 1950 dovette allontanarsi da Tel Aviv per svolgere il servizio militare come pastore nell’Alta Galilea, interrompendo momentaneamente il sogno di diventare scultore. Il contatto diretto con il paesaggio della Bibbia suscitò nel giovane Kadishman una serie di riflessioni spirituali e deontologiche: “Abramo era un pastore come me, Isacco, Giacobbe e Davide, dei sabra come me. È senza dubbio in quel momento che ho capito che la mia arte non avrebbe potuto essere nient’altro che il mio senso della vita, qualsiasi forma essa potesse assumere”, disse l’artista. L’armonia della vita nel kibbutz fu presto interrotta dalla chiamata alle armi nel 1956. Kadishman fu costretto a separarsi dai suoi greggi, ma promise che un giorno li avrebbe rincontrati. Questo desiderio si realizzò 22 anni dopo, nel 1978, durante la leggendaria Biennale sulla natura. In quella occasione, trasformò il Padiglione israeliano in un autentico ovile, portandovi un gregge di 18 pecore vive, ognuna contrassegnata da un segno di pittura blu.
Intervista alla figlia Maya Kadishman
Come definiresti tuo padre?
Domanda interessante. Se dovessi scegliere una sola parola per descriverlo molto probabilmente sarebbe “cuore”.
Perché?
Menashe era un canale per la percezione visiva del dolore umano, un profeta, una voce per coloro che erano stati silenziati. Forse è per questo che si sentiva così affine alle pecore. Le considerava un simbolo di coloro che seguono passivamente la direzione altrui, senza voce né forza propria. Dalla sua esperienza di pastore capì subito che il punto critico riguardo al gregge è chi ne detiene la guida. Le persone seguono ciecamente e così facendo possono essere abusate, ingannate, spinte dalla paura a fidarsi di un falso profeta o di un falso leader che non vuole il loro bene.
E che tipo di guida fu, dunque, tuo padre per le sue pecore?
Mio padre ha cercato di essere, ed è stato, quel leader autentico che ha guidato il suo popolo verso un cammino di amore, dando voce al loro dolore. Un vero leader, degno di fiducia, proveniente dal cuore e per il cuore.
Fu anche un combattente per la giustizia e la pace. Molte delle sue opere affrontano questi temi, spesso ispirandosi alle sue esperienze di vita vissuta.
Quando iniziò a pensare a Shalechet?
Durante la Prima Guerra del Libano, mio fratello fu arruolato nell’esercito. Molti giovani soldati, nostri amici, stavano morendo, così come i figli degli amici di mio padre. Lui aveva già vissuto il dramma delle guerre precedenti, in cui molti dei suoi compagni erano stati uccisi. Ma questa volta era diverso: era suo figlio che rischiava di perdere la vita combattendo. È questo il contesto che ha ispirato la nascita dell’opera Sacrifice of Isaac.
E poi? Come gli venne l’idea precisa?
Partiamo col dire che, a differenza del passo biblico, nella sua versione non c’era nessun angelo a salvare i giovani soldati: morivano, e l’ariete prevaleva su di loro. Per questo motivo l’animale occupa uno spazio così prominente nell’opera e la testa di Isacco giace a terra, morto, accanto alle madri in lutto. In quel periodo, realizzò tante piccole opere con questo soggetto. Ogni fine settimana si recava in una fabbrica di metalli dove realizzava le sculture. Poi le portava a casa – dove aveva uno studio nell’appartamento sottostante al suo – e posava queste teste metalliche lungo un corridoio, sistemando il resto nelle stanze adiacenti. Col passare del tempo, si erano accumulate centinaia di teste sul pavimento, tanto che era costretto a camminarci sopra per passare da una stanza all’altra. È qui che ebbe l’idea per Shalechet.
E come l’opera arrivò a Berlino?
Il suo gallerista, Hans Mayer, presentò questa installazione a Daniel Libeskind. L’architetto rimase così colpito dalla potenza e dall’impatto emotivo di Shalechet che decise di creare uno spazio appositamente dedicato ad essa, un ambiente concepito per esaltare al massimo il suo significato.
Quale fu la reazione del pubblico?
Ricordo bene il giorno dell’inaugurazione del museo: c’erano persino il cancelliere tedesco Gerhard Schröder e il presidente della Repubblica Johannes Rau. L’interesse suscitato dalle Foglie cadute fu immediato e travolgente, tanto che il giorno successivo mio padre e la sua opera comparvero su tutti i giornali. Da quel momento in avanti, Shalechet è considerata una delle installazioni più significative e influenti del XX secolo, un monumento alle vittime di tutte le guerre, capace di suscitare profonde riflessioni sulla condizione umana.Gabriele Cordì
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