Intervista fiume a Giuseppe Stampone, l’artista della penna
Si definisce una “fotocopiatrice intelligente” Giuseppe Stampone, in mostra presso la Fondazione Malvina Menegaz di Castelbasso in Abruzzo. In questa intervista completa, ripercorre venticinque anni di carriera e ci racconta i suoi progetti futuri
La retrospettiva Game over di Giuseppe Stampone (Cluses, 1974) presso la Fondazione Malvina Menegaz di Castelbasso (in provincia di Teramo) ripercorre venticinque anni di carriera in cui l’artista ha portato avanti progetti educativi per i bambini di tutta Europa attraverso la costruzione partecipata di abbecedari e di un vocabolario libero che mette in discussione il mondo attorno a noi. La mostra raccoglie opere composite e differenti create con la metodologia della Global Education, ma non solo: vi sono anche opere dedicate alla sua terra che rievocano la magia del contatto con la natura e le mappe che regalano una nuova localizzazione allo sguardo e all’esperienza dello spettatore. In occasione della mostra, abbiamo dialogato con Giuseppe Stampone per scendere nelle ragioni più profonde della sua arte e della sua metodologia concettuale.
Intervista a Giuseppe Stampone
Uno dei leitmotiv delle opere esposte in Game over è lo svelamento della finzione del dispositivo prospettico che si manifesta nell’arte della storia moderna. Cosa può comunicarci ancora oggi la prospettiva?
Nella mia tesi di laurea ho sviluppato un percorso che va da Piero della Francesca a Giulio Paolini, dalla Flagellazione di Cristo a Giovane che guarda Lorenzo Lotto. Nella prima, la prospettiva è usata dall’artista per amalgamare contemporaneamente due spazi-tempo in una scatola ottica che annulla la realtà empirica effettiva e costruisce una realtà politica e mentale. Molte delle opere esposte alla Fondazione Menegaz derivano da quadri storici che riattivo in chiave contemporanea attraverso l’uso della prospettiva ed evidenziandone i suoi effetti. In questo senso vedo la prospettiva come uno mezzo a doppio taglio: la uso come strumento di guerra per svelarne il trucco, per disvelare allo spettatore che viviamo in un periodo storico dove l’immagine viene costruita politicamente. La prospettiva nasce per bloccare il tempo comune e organizzare il tempo dell’esperienza: nel costruire un’immagine prospettica si danno delle priorità nello spazio, si organizzano gli elementi in modo da dar loro un certo risalto, perché la prospettiva non traduce quello che io vedo, ma quello che io penso.
Perché hai scelto di utilizzare opere storiche?
Usare un riferimento come un’opera storica mi è utile per due motivi: il primo è perché già presente nella nostra memoria, dato che la nostra coscienza collettiva e connettiva conserva quel tipo di immagine. E in seconda istanza avvio un dialogo di trasfigurazione con lo spettatore: cerco di riattivare quella memoria con la contemporaneità e di accompagnarlo verso la sua quotidianità con la contemporaneità. La serie delle tavole in mostra a Palazzo Clemente a Castelbasso si intitola in modo ironico Duchamp a casa Vermeer, come fosse una sorta di ready-made storico.
La prospettiva nasce per bloccare il tempo comune e organizzare il tempo dell’esperienza: nel costruire un’immagine prospettica si danno delle priorità nello spazio, si organizzano gli elementi in modo da dar loro un certo risalto, perché la prospettiva non traduce quello che io vedo, ma quello che io penso.
Hai parlato di uno spazio di trasfigurazione tra lo spettatore e l’opera. Quale alchimia si instaura tra i due?
Mi piace parlare di “spettatore contenuto”: non esiste più la dittatura dello spettatore, ma qualsiasi spettatore è contenuto nell’opera nel senso che la porzione di spazio tra lui e l’opera è uno spazio di trasfigurazione dove l’opera cambia lo spettatore e lo spettatore cambia l’opera. È quindi il fruitore a dare il contenuto all’arte. Ti faccio un esempio. Con il mio progetto Global Education ho fondato una metodologia che pone alla base delle mie opere la didattica: ho visitato e interrogato i bambini di scuola primaria di tutta Europa facendoli esprimere attraverso assemblee partecipative sulle parole e sulle immagini da associare alle lettere dell’abbecedario. Il materiale raccolto è diventato appunti per le mie mappe che si sono trasformate in tag e link per le lettere degli abbecedari.
L’estetica nelle opere di Giuseppe Stampone
Quindi riattivare opere storiche in chiave contemporanea ti permette di riattualizzare anche lo sguardo dello spettatore, giusto?
Non solo lo sguardo, ma anche e soprattutto la sua esperienza. Tutte le mie opere giocano su questo binomio fra storia e contemporaneità. Per esempio quando Jan Fabre mi invitò a esporre in Triennale, mi recai a Lampedusa dove ho fotografato alcuni emigranti che ho poi ricontestualizzato all’interno del quadro di Géricault La zattera della Medusa. Era come collegarsi idealmente alla Francia post-napoleonica che stava vivendo una rivoluzione francese in balia di quelle onde. Oggi, dopo cento anni, per quanto riguarda la questione dell’immigrazione siamo nelle stesse condizioni in Europa. Attraverso la prospettiva fermo il vostro tempo – quello dei fruitori della mostra – per riorganizzare il vostro spazio ed è sostanzialmente quello che fa la politica nella costruzione architettonica delle città. Allo stesso modo il pittore del Rinascimento utilizzava la prospettiva per fare sì che i banchieri fiorentini e quelli delle Fiandre contaminassero e controllassero il mondo. La prospettiva nasce per questo. Un altro grande esempio è il carattere Gutenberg, un alfabeto che vuole diffondere la Bibbia. Ma perché la Bibbia e non Maometto o Buddha? Siamo dei capitalisti eurocentristi che hanno violentato il mondo intero. Se ci pensi, il carattere Gutenberg e la prospettiva sono stati più devastanti della bomba atomica su Hiroshima e Nagasaki.
Un’opera fondamentale per te, Giovane che guarda Lorenzo Lotto di Giulio Paolini è indicativa dell’uso critico della prospettiva. Come si evolve nell’opera Giuseppe Stampone di fronte allo sguardo di Giulio Paolini da giovanepresente a Castelbasso?
Paolini ne fa un aspetto psicologico. Io attraverso la prospettiva voglio creare uno stargate fra la bidimensionalità e la tridimensionalità, quindi la mia si evolve più architettonicamente che psicologicamente. Non cerco lo sguardo dello spettatore, ma il suo corpo che si immedesima all’interno della prospettiva e questo punto di fuga all’orizzonte. Giulio Paolini – con cui la curatrice della mostra, Ilaria Bernardi, collabora – ci ha permesso di fare un’edizione nuova di Giovane che guarda Lorenzo Lotto.
Sostanzialmente utilizzi dispositivi artistici che celano una finalità politica per rimettere in discussione l’estetica e conseguentemente i suoi effetti sulle persone
Sì, così come agisce la prospettiva, allo stesso modo lo fa il carattere Gutenberg che nasce nel medesimo periodo storico con la finalità di diffondere la Bibbia; è uno strumento di guerra anche quello, perché toglie l’oralità della discussione per immetterla in modo razionale all’interno di un foglio, con un orientamento preciso: da sinistra verso destra e dall’alto verso il basso. E i miei abbecedari partecipativi parlano anche di questo: non accetto l’idea di un abbecedario fatto da pochi per tanti, ma credo nella partecipazione e che ognuno possa associare liberamente una lettera a una parola e a un’immagine.
Il processo creativo di Giuseppe Stampone
Svelati i meccanismi coercitivi che si insidiano nell’estetica dominante, come si può pensare un nuovo modo di fare politica attraverso l’estetica?
Ho iniziato la mia carriera artistica realizzando grandi installazioni di arte partecipativa, ma nel 2008 ho dichiarato a me stesso di voler andare contro corrente poiché molti artisti iniziavano a calcare la mia stessa via. Dato che ho sperimentato tanto con la tecnologia da conoscerla bene, ho voluto tornare al segno perché il segno per me è un atto politico, la vera disobbedienza alla velocità e alla dittatura di Internet. Per fare i miei quadri ci vogliono fino a sessanta velature e occorrono diversi mesi per realizzarle. L’artista si riappropria del proprio tempo attraverso il fare che non è più un atto manieristico, ma concettuale. Il sistema dell’arte impone all’artista di produrre un certo numero di opere e di partecipare a un dato numero di fiere d’arte, ma qui sono io a decidere quando e quanto produrre.
Come realizzi le tue velature?
Uso la penna BIC perché una ha una percentuale di olio che mi permette la tecnica della velatura a incrocio utilizzata da Raffaello. In tal modo vado a stratificare il tempo nella bidimensionalità. Sulle mie tavole ci sono “enne” stratificazioni che rappresentano il tempo accumulato lì, quindi il mio è un operato politico e concettuale. Le mie tavole sono un “contatempo” e ho un archivio che custodisce i tempi di realizzazione di ogni disegno.
Come cerchi le icone che disegni che realizzi?
Parto sempre da file presi da Internet, ecco perché mi definisco una “fotocopiatrice intelligente”. Sono come un bambino romantico che è andato in panico a un certo punto chiedendosi dove andassero a finire tutti questi file che ogni giorno consumiamo. Allora io li vado a prendere per non farli sfuggire e da liquidi e fluidi li rendo solidi sulla tela. Se Warhol si definiva una macchina, io sono una “fotocopiatrice intelligente”.
Anche lo spettatore può riappropriarsi di un tempo che va oltre quello dettato dal sistema dell’arte?
Allo spettatore chiedo di avere tempo: le tavole di piccolo formato in mostra si svelano come in un film poiché sono ricche di dettagli che vanno a stratificarsi su più livelli. Se prima realizzavo grandi installazioni, nel 2008 ho dato vita alle tavole 30×40 cm, in seguito alla crisi di New York. Quindi lo spettatore – anche in un contesto come quello della fiera – deve avere la volontà di vedermi e dispiegare il tempo necessario per contemplare un’opera che si manifesta pian piano poiché fatta di stratificazioni.
I progetti futuri di Giuseppe Stampone
Cosa ti ha fatto capire la retrospettiva Game Over sul tuo percorso artistico?
Innanzitutto la curatrice e io volevamo dare una lettura precisa per far capire che il disegno è solo un atto concettuale alla base della costruzione delle mie opere. Ma soprattutto, con il termine “Game Over” ho osato sfidare me stesso: se il gioco è finito, adesso cosa faccio? Dopo venticinque anni di soddisfacente percorso artistico e dopo aver raggiunto traguardi importanti, voglio tagliare con tutto quello che ho fatto fino adesso.
E in che direzione andrà il futuro?
Voglio aprire il mio laboratorio per l’arte contemporanea sotto il Gran Sasso. Presso la Fondazione Menegaz abbiamo presentato una serie di opere sul Gran Sasso (La Maiella e il Gran Sasso… La natura delle cose, 2023) perché ho bisogno che il mio corpo torni dove deve. Sono un uomo della terra cresciuto sotto l’ombra benevola del “Gigante che dorme”. Per quanto riguarda il laboratorio, sarà determinante la sua natura di Lab: non sarà uno spazio espositivo, né una residenza, ma un contesto reale e significativo che verterà sul rapporto fra uomo e natura, uomo e animale. Vivendo sotto il Gran Sasso ho immaginato di creare delle passeggiate-incontri con artisti e intellettuali in tenda, dove andremo a riscoprire questa identità e si tornerà a disegnare en plein air. Voglio tornare a respirare e a percepire il rapporto con la natura. È inoltre in cantiere il secondo film con Maria Crispal che seguirà il primo attualmente in mostra a Castelbasso. Sarà fatto sul Gran Sasso, ma mentre nel precedente gli animali sono protagonisti, questa volta ci sarà l’uomo al centro e verrà girato sul versante aquilano.
Parlando della collaborazione con l’azienda Buzzi Unicem di Casale Monferrato, la cui inaugurazione sarà a settembre, anche in quel contesto hai ripreso la metodologia didattica alla base di Global Education?
La collaborazione con la ditta di Casale Monferrato, leader nel mondo nella produzione di cemento, nasce dalla volontà di dare una nuova veste comunicativa ai valori dell’azienda che emerga dai loro dipendenti attraverso la metodologia artistica a loro più congeniale.Così come faccio nelle scuole, quando visito un’azienda non impongo i miei contenuti, ma ascolto, interrogo, intervisto e poi archivio. E da questo archivio nascono le lettere che si trasformeranno in abbecedario e le mappe che prenderanno poi un’altra forma. Per esempio ho realizzato per la Buzzi Unicem una mappa emotiva che diventerà un dépliant da dare ai visitatori.
L’idea è che i contenuti che ho evidenziato negli abbecedari attraverso la mia metodologia artistica – contenuti che sono prettamente di chi ha vissuto l’azienda – arrivano in modo più immediato. Contrariamente a un ufficio di comunicazione, io lascio emergere l’immagine del brand, ascoltando e dando forma ai contenuti. Cosa c’è di più veritiero che intervistare e far progettare i dipendenti che lavorano nell’azienda? Si costruisce un’identità attraverso la comunità dei lavoratori.
Oltre gli abbecedari hai realizzato altro per la Buzzi Unicem derivato dall’incontro con i dipendenti?
Ho realizzato il logo dello Stargate Area 907 con il desiderio che i visitatori, quando entrano nello spazio espositivo, facciano un viaggio nella storia, nella consapevolezza e nella contemporaneità tra l’azienda nuova e quella vecchia, facendo delle esperienze tattili che non sono solo orali, ma fisiche e visive grazie al percorso creato per i ventuno abbecedari che plasmano il percorso all’interno dell’azienda.
Collaborerai anche con grandi della musica: gli U2. Puoi parlarcene?
Dieci anni fa realizzai l’installazione Caronte per un grosso collezionista che si chiama Invisible Dog; era un’installazione su Dante Alighieri e la Divina Commedia. Questo era un building con un montacarichi con il titolo Caronte perché il montacarichi può trasportare su tre piani differenti: l’inferno, il purgatorio e il paradiso. Abbiamo realizzato poi una performance con la violoncellista Julia Kent.Gli U2 si sono innamorati di Caronte installato all’Invisible Dog Art Center e hanno poi inserito l’opera nel loro videoclip Ordinary Love. In futuro è prevista la realizzazione di cinque opere in collaborazione con loro.
Martina Lolli
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