Dialoghi di Estetica. Parola all’artista Lucia Cantò
Volendo approfondire la ricerca artistica di questa giovane artista, abbiamo discusso in esclusiva con lei, indagando il suo rapporto con la quotidianità, l’importanza delle relazioni umane e la sua idea di scultura. L’intervista
Dopo la formazione presso le Accademie di Belle Arti di Venezia e dell’Aquila, Lucia Cantò (Pescara, 1995) ha avviato la sua carriera di artista dedicandosi soprattutto alle possibilità offerte dalla scultura. Oltre a quest’ultima affida le sue esigenze espressive anche all’uso di oggetti e materiali quotidiani, all’installazione e alla fotografia. Cantò è tra le artiste e gli artisti selezionati per WONDERFUL! Art Research Program, prima edizione del programma di residenze presso il Museo Novecento di Firenze. Ha esposto le sue opere in mostre personali e collettive, tra le quali le più recenti sono: 36° (Galleria Monitor, Roma 2024); Panorama (L’Aquila 2023); Stelle che sorreggono altre stelle (Fondazione Elpis, Milano 2023).
Questo dialogo propone una riflessione sulla poetica di Cantò e su alcuni suoi soggetti: l’interesse per la vita quotidiana, il ruolo della noia, l’attenzione per le possibilità materiali, l’idea della scultura come compartecipazione al mondo, la centralità delle relazioni umane e dell’energia creativa, la forma come punto di rottura.
In dialogo con l’artista Lucia Cantò
Osservando i materiali per le tue sculture e gli oggetti che usi per le installazioni – dalle parole in ceramica sospese, alle gru idrauliche, dalle tele scritte che fuoriescono dalle due Olivetti n. 32, ai fiori pendenti da una struttura di metallo – mi sembra possibile riconoscere il ruolo che assegni alla compenetrazione, alla possibilità di stabilire più legami tra i diversi materiali coinvolti.
Io lavoro essenzialmente sul piano della corporalità materiale, che corrisponde per me al vivere. Tendo a dare molta importanza alla vita di tutti i giorni, a rapporti viscerali e profondamente familiari. Dunque, sì, è un termine giusto quello che hai usato. Anche perché, in fondo, si tratta di riuscire a ottenere una compenetrazione dei corpi e del pensiero, che passa prima di tutto attraverso una fase crittografica di rapporti fisici in relazione con le forze invisibili che li attraversano e sento attraversarmi.
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Che rapporto hai con la noia?
La vivo lasciando anche che vi sia posto per l’ironia. Convivo con una fortissima tensione interna continuativa, un grado di attenzione dettagliata per quello che succede nella quotidianità, che mi permette di annoiarmi ben poco. Ogni volta scopro che fare arte è un modo eccezionale che possiamo avere di cogliere il legame con noi stessi e con il mondo; un modo di fare le cose che ci permette di riconoscere possibilità che altrimenti non vedremmo.
Questo approccio, che sono convinto trovi espressione concreta nelle tue opere, si nutre anche del tuo interesse per la fragilità. Non intendo quella eventuale dei materiali e degli oggetti, ma la condizione sostanziale delle relazioni umane, dei quotidiani modi di vivere.
Conservo continuamente uno sguardo vigile sulla vita e sulle relazioni umane. È anzitutto una questione di tempo (spesso nei confronti di un sistema di fragilità di cui ci componiamo e che compongono le relazioni che intessiamo), di stare nello scorrere del tempo o a volte sottrarsene, mentre mi concentro su come entrare nella solidità, nella corporeità del fare rispetto a queste tensioni apparentemente invisibili. Ma quella che stai menzionando è una questione davvero importante per me. Condivido la tua scelta di usare la parola ‘fragilità’: mi fa piacere che si veda questa forma di resistenza nelle mie opere.
Rispetto a quella fragilità tu non ti fermi. Nel tuo insistere si riconosce anche quel modo ‘sottile’ che hai di porti verso qualcosa che naturalmente di leggero ha ben poco.
Quello che mi affascina moltissimo è la condizione prima della fragilità, il fatto di riuscire in qualche modo a entrarvi e ad affrontarla. La resistenza nasce in quel momento: sia in rapporto ai materiali, sia rispetto a quelli che poi potrebbero apparire come dei non avvenimenti. Il mio sguardo sul mondo è guidato dal riconoscimento di un percorso, diciamo così, dalla ferita al miracolo. C’è una parola usata nella lingua tedesca, ‘wunder’, che riassume bene quella condizione che osservo e che determina i miei modi di resistere: il prodigio degli eventi minimali, la meraviglia del quotidiano e la cicatrizzazione della ferita che inspessisce la parete epidermica.
Come lo descriveresti, quel percorso dalla ferita al miracolo?
È una questione di attrito con il mondo. Penso alla resistenza essenzialmente nell’ottica di una connotazione fisica, per questo la scultura ha un suo particolarissimo fascino. Perché è qualcosa che non mi sono mai scelta. Una inclinazione, un modo per mettere in luce la compartecipazione dei corpi nel mondo.
Le cose, però, spesso non vanno come vorremmo, e potremmo dover fare i conti con repentini cambi di programma. Che cosa fai in questi casi?
Seguo quello che succede. Collego l’arte all’esistenza umana, so bene che niente dipende solo da me. È illusorio pensare qualcosa del genere: metterti di fronte alla vita e vedere che qualcosa non corrisponde con la tua volontà è segno del fatto che il nostro agire si dovrà basare su un allineamento che può portarci a ripercorrere le cose e doverle ricomporle a volte.
Un atteggiamento per niente scontato. È come se tu dichiarassi anche che c’è qualcosa come una chimica reagente in corso che influenza un po’ tutto. Ma, all’origine si tratta di un rapporto che si stabilisce attraverso la forma.
Il mio è un interesse per la veicolazione simbolica che mi si palesa continuamente. Penso che la forma si possa descrivere anche con quella espressione, ‘chimica reagente’. Infatti, la associo a elementi che entrano in relazione tra loro e uno sicuramente riguarda la spazialità: un dato corpo, un volume, disposto in un certo modo può offrire già informazioni innate così per come è fatto. Un secondo elemento si compone di informazioni latenti che necessitano di una diversa percezione. Tali segnali, secondo me, sono stati descritti meravigliosamente da Lea Vergine con l’espressione ‘maceranze dell’anima’. Per me questo è importantissimo, soprattutto perché si tratta di un non linguaggio, della possibilità che ha il materiale in qualche sua forma di avviare un ‘dialogo invisibile’ che ti dà una seconda lettura del tuo cercare di capirti e del tuo dialogare con esso.
La scultura e l’attrito secondo Lucia Cantò
Qual è la tua idea di scultura?
La penso come una compartecipazione al mondo. Ossia, influenzata dal fatto che io ho una presenza che può anche resistere al mio corpo, al tempo, e vivere grazie alle contaminazioni di più forze. Si tratta anzitutto di un volume che poi avrà forma grazie a quello che faccio: il legame con il mio corpo e le mie azioni viene prima di tutto.
In questa tua concezione mi sembra si possa anche riconoscere quanto sia importante per te l’energia. L’idea che mi sono fatto è che tu lavori soprattutto sulla possibilità di convertire processi energetici attraverso i materiali che usi: ti poni quesiti sulle energie e le incanali per ottenerne altre. Ma, se non sbaglio, per te non si tratta di conservare ed esporre l’energia o le forme del peso, piuttosto di riuscire a esporre la tensione tra le cose attraverso più materiali.
Questa è una lettura precisissima! Tutta questa ricerca di un contatto con l’altro si lega all’interesse rispetto al fatto di arrivare anche al limite delle mie singole energie. Mi rendo conto che si tratti anche di una sfida rispetto alle dimensioni interne del lavoro: spesso avverto che sono più grandi di me in termini di tensione che provocano, ossia rispetto alla possibilità di arrivare al limite attraverso una ricerca emotiva. Così riconosco una forma di interscambio con il mondo, arrivando a un punto limite che è così forte da fare uscire qualcosa da te stesso, così da poterlo poi trasporre con la materia.
Che cosa succede quando incontri l’attrito?
Mettere nel mondo delle opere è un modo per entrare in contatto con la materia, per fare qualcosa in reazione a una condizione molto forte che mi influenza. C’è bisogno però che io arrivi a una certa saturazione di queste tensioni, ossia che entri nell’ambito della necessità. All’attrito corrispondono quei momenti in cui metto in questione tanto il mondo quanto il mio operato. Litigo con me stessa perché avverto una forte pressione. Ma, nonostante ciò, non rinuncio a quella spinta primordiale che segnala che è arrivato il momento di farlo.
Perché?
Perché seguo un processo che è anzitutto naturalmente fallimentare. E, forse, non può che essere così. Alcuni lavori nascono con delle immagini che faccio di tutto per tradurre concretamente nel mondo.
Ma, so bene che quella prima visione, quella prima forma, non risponderà a quello che poi ci sarà. È lì che insisto, affronto l’attrito, perché voglio comunque arrivare a toccarla e a farla toccare. Lasciami dire, però, che tutto questo ha un suo costo.
Che cosa intendi?
Che l’operosità o il mostrare è accompagnata anche da una forma di imbarazzo. Non tiro dritto, semmai devo fare i conti con la ritrosia che si presenta. Anche perché l’attrito è molto legato alla frontalità. Ti trovi davanti qualcosa di ineludibile: spesso mi trovo a dovermi misurare, in fin dei conti, con la mia presenza, mi trovo di fronte a me stessa. Questo genera un profondo imbarazzo. La frontalità mette in condizione di rivedersi in modo primordiale, prima di tutto come corpo nudo nel mondo.
Per te la forma sarebbe allora una sorta di dichiarazione di un punto di rottura.
Esatto! Io lì mi rompo e l’opera rompe in qualche modo con me. Ma io sono comunque libera di continuare. Così vado avanti, di attrito in attrito.
Davide Dal Sasso
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Davide Dal Sasso
Davide Dal Sasso è ricercatore (RTD-A) in estetica presso la Scuola IMT Alti Studi Lucca. Le sue ricerche sono incentrate su quattro soggetti principali: il rapporto tra filosofia estetica e arti contemporanee, l’essenza delle pratiche artistiche, la natura del catalogo…