La struttura ‘multicellulare’ della Biennale è una benedizione per la Biennale
Sono – ancora una volta – i padiglioni nazionali a salvare questa Biennale, grazie alla loro capacità di offrire prospettive multiple e differenti, sia che si allineino al tema scelto dal curatore sia che se ne distacchino
Meno male che ci sono i padiglioni. Niente è stato più discusso nella storia della Biennale di Venezia, con lo stigma di nazionalismo, sovranismo, colonialismo e altre parole d’ordine che oggi fanno più paura di ieri. Se le portano appresso soprattutto quelli collocati ai Giardini, nati dal 1907 in poi: quando, appunto, l’idea di Nazione andava per la maggiore e i filosofi dell’idealismo tedesco dedicavano all’identità nazionale apologie che – ancora non si sapeva – avrebbero drammaticamente condotto al male.
La mostra di Adriano Pedrosa
Però adesso è un’altra faccenda. I padiglioni nazionali della Biennale di Venezia non sono confinati alle potenze che, in un’orbita bellica di primo Novecento avrebbero potuto avere voce in capitolo. La struttura “multicellulare” che Lawrence Alloway, negli Anni Sessanta, vedeva come una debolezza della mostra, oggi è una benedizione, perché impedisce che ci sia una prospettiva univoca a guidare la mostra. Anche quando lo sguardo del curatore centrale è avanzato e rispettoso delle differenze, come, almeno sulla carta, si annunciava quello di Adriano Pedrosa, rischia sempre di essere troppo univoco per riservare sorprese e per rispecchiare davvero il polimorfismo dell’arte contemporanea. Avere una via d’uscita dal pensiero unico è sempre un vantaggio. E alla fine, guardando la mostra centrale, si capisce che molti curatori dei padiglioni hanno volentieri obbedito alla parola di Pedrosa, ma almeno lo hanno fatto con fantasia. In effetti la maggior parte dei Padiglioni parla di alterità etnica e di decolonizzazione.
I Leoni d’Oro alla Biennale di Venezia
Non ci portano tanto lontano dalle premesse di Pedrosa i due padiglioni premiati con Leone d’Oro e Menzione. La giuria ha rispettato le linee di forza della mostra principale. Così abbiamo un premio maggiore all’Australia, un padiglione “quieto”, com’è stato definito, ma a modo suo bollente: 65.000 anni di storia del continente risultano iscritti sulle pareti e sul soffitto; a terra un torrente lascia galleggiare i documenti di Stati che paiono perduti, fragili, e però anche violenti nel loro ricordare le difficoltà delle prime immigrazioni e la quantità di incarcerazioni che hanno implicato. L’artista Archie Moore sembra perdonare e accusare nel medesimo tempo, comprendendo come in una terra di nessuno, o piuttosto di popolazioni incapaci di difendersi, non avrebbero potuto installarsi che disperati pieni di attitudine alla violenza.
Il Padiglione del Kosovo
La menzione speciale come partecipazione nazionale è stata data alla Repubblica del Kosovo, solo pochi anni fa rappresentata clandestinamente da Sislej Xhafa che dava calci a un pallone. Tempo, guerre, consapevolezza e denaro sono passati sotto i ponti. Ora siamo sul bordo del femminismo e dello sfruttamento: l’installazione di Doruntina Kastrati rievoca il lavoro industriale femminilizzato. L’industria dolciaria turca trasferita in Kosovo diventa l’occasione per ricordare il dolore alle ginocchia delle operaie. Facendo riferimento sia ai gusci di noce utilizzati nelle delizie turche prodotte in fabbrica, sia alle parti mediche utilizzate per sostituire le ginocchia ammalate, un soundtrack dolceamaro ribadisce il messaggio di una civiltà che è diventata produttiva, ma a un prezzo difficilmente sostenibile.
L’attitudine post documenta 15 ai collettivi si esprime in Brasile, dove lavora il collettivo della Comunità Tupinambá dalla Serra do Padeiro e Olivença a Bahia, con Olinda Tupinamba e Ziel Karapotó. L’idea dominante è quella di un ritorno alle origini, di una restituzione del maltolto in un orizzonte naturale, dove il ricordo di un certo uccello tropicale coincide con la rivendicazione di una perduta autonomia etnica ed etica.
L’eredità coloniale e la Biennale di Venezia
La liberazione dall’eredità coloniale si rideclina nel freddo della Groenlandia presso il Padiglione Danimarca, dove le fotografie del nativo Inuuteq Storch, e quelle che si è fatto prestare da archivi irraggiungibili, trasmettono un percorso storico e archivistico che inizia intorno al 1900. Un itinerario non dissimile si ritrova nel Padiglione dei Paesi Nordici, che recuperano segni, volti, modalità architettoniche e materiali costruttivi delle civiltà autoctone.
Se vogliamo utilizzare la categoria del bello unita a quella dell’alterità, spicca il padiglione francese: sulla corteccia degli alberi della pioggia o sulle rocce delle coste della Martinica, ovviamente territori in cerca di un’autonomia culturale rinnovata, spiccano gli elementi naturali inconsueti che l’artista Julien Creuzet ha saputo mettere in evidenza.
La palma per la realizzazione più significativa, semplice da guardare ma complessa nella realizzazione, è il film di Wael Shawky per il Padiglione Egitto su di una breve rivoluzione avvenuta ai tempi della Regina Vittoria. Teatrale, curato nella sceneggiatura da musical stilizzato, attento alle coreografie, ai costumi, ai colori, alla musica, il film procede nella poetica di Shawky protesa verso due direzioni: mostrare la storia dalla parte di chi non ha vinto e prestare un’attenzione maniacale all’oggetto finale in termini di armonia e potenza comunicativa.
Il Padiglione Venezuela e il Padiglione Italia
Una potenza inusitata scaturisce da un padiglione poco menzionato, quello del Venezuela, dove il lavoro di matrice cinetico-costruttiva di Juvenal Ravelo ricorda le installazioni e i quadri di artisti come Anuskiewickz, Vasarely, Agam e rammenta che l’idea di opera relazionale è incominciata anche da questi esperimenti. Il cinetismo degli Anni Sessanta torna a parlarci senza mai avere avuto il successo e la comprensione che meritava.
L’elenco delle sorprese potrebbe continuare con Spagna, Inghilterra, Polonia, Olanda e un Padiglione Italia onesto, monumentale, a cavallo tra il nostro nazionale estetismo e l’internazionalità della musica – quanta musica in questa Biennale! – per cui dobbiamo ringraziare l’azione elegante e più che matura di Massimo Bartolini.
Una nota finale tocca i padiglioni di Israele e Russia, entrambi chiusi (al posto della Russia c’è la Bolivia) e capaci di fare arrivare la guerra anche qui. Un ultimissimo cenno va a tutti i Paesi che, non avendo un sistema dell’arte abbastanza scaltro, hanno ceduto a curatori (ma soprattutto imprenditori) italiani la loro realizzazione. L’artista è autoctono, il denaro è straniero, il guadagno completamente locale, nel senso di Venezia o di un’Italia cialtrona. Succede.
Angela Vettese
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