Sul filo tra astrazione e figurazione. Intervista a Ludovica Anversa
Una pittura insieme primordiale e contemporanea quella della giovanissima Ludovica Anversa, che racconta se stessa e il suo lavoro in questa intervista
La pittura di Ludovica Anversa (Milano, 1996) è fatta di affioramenti e apparizioni. Dalla tela emergono organismi primordiali, quasi impalpabili; ipotesi di figure che prendono forma attraverso un processo di messa a fuoco graduale, a seguito del quale il dipinto rimane comunque in una zona contesa tra astrazione e figurazione. A partire da questa intrigante indecisione, Anversa propone una pittura insieme primordiale e contemporanea, a volte disidratata e altre animata da colori più squillanti; una pratica tenuta in piedi da felici contrasti che necessita di un tempo di decantazione per essere compresa e penetrata.
Intervista a Ludovica Anversa
In un momento in cui molta pittura, soprattutto quella praticata dagli artisti più giovani, sembra rivolgersi verso una figurazione esplicita e a volte quasi illustrativa, tu prediligi immagini meno nette e risolute. Si tratta di una scelta di natura puramente formale o è anche una presa di posizione che ha a che fare con il modo – spesso frenetico – di produrre e guardare alle immagini oggi?
Come molti, appena ho iniziato a dipingere i miei quadri erano prettamente figurativi. Ho sempre collezionato un’infinità di immagini, in modo quasi bulimico. Col tempo mi sono resa conto che l’idea di “rappresentare”, scegliendo che cosa dipingere, qualcosa che avevo già progettato e, dunque, in qualche modo già visto, mi annoiava. Continuo ad avere tanti spunti visivi mentre dipingo, ma le immagini che guardo servono a segnare la tela e fungono più da diagramma che da soggetto.
Riflettendo sulla quantità di materiale visivo che dobbiamo digerire ogni giorno, più o meno volontariamente, sento la necessità di non produrre e aggiungere ulteriori narrazioni esplicite per lo sguardo. Non penso a un mondo onirico o surreale quando dipingo; preferisco l’idea di allucinazione a quella di sogno. Quando riesco ad allentare la presa dalle immagini che guardo e a farle fluire nel mio vocabolario pittorico, provo un temporaneo ma profondo sollievo.
In questo momento definirei i miei quadri semi-astrazioni; mi piace quest’idea di liminalità, di indugiare sotto una soglia e abitarla. Come scrive Byung-Chul Han: “Le soglie possono spaventare o angosciare, possono anche rendere felici o incantare. Le soglie stimolano fantasie rivolte all’Altro”.
Alcuni tuoi dipinti sembrano delle radiografie di embrioni, come se fossero originate da un occhio o un inconscio tecnologico. A questo sguardo “clinico” e apparentemente anestetizzato, si affianca una sensibilità per ciò che è organico, viscerale, vischioso. Come si conciliano queste due dimensioni?
Non so se lo userei come termine per parlare del mio sguardo, ma sicuramente mi interessa quello sguardo “clinico” – come tu lo hai definito – a cui tutti i corpi sono quotidianamente sottoposti.
Ogni rappresentazione tecnologica del corpo, come può essere l’ecografia, si porta dietro dei fantasmi e può essere innovativa e utile, ma anche rafforzare paradigmi di oppressione e controllo.
In questo senso, mi piace che le mie immagini sembrino manifestarsi sotto una sorta di filtro che ne rende la visione indiretta, dal quale sembrano emergere a fatica, ma con grazia. Oppure, che evochino visioni spettrali e intangibili, simili a ectoplasmi.
Dall’altro lato, alcuni miei dipinti si avvicinano maggiormente a residui immersi nella nebbia, a ritrovamenti, altre volte alla carne viva e alla ferita.
Mi interessa sfiorare diverse corde della sensibilità e lasciare l’apertura sufficiente a chi guarda per farsi toccare “dove vuole”.
Riferimenti e prossimi progetti di Ludovica Anversa
Quali sono i tuoi riferimenti culturali?
Mi eccita molto trovare dei riferimenti a posteriori, magari leggendo qualcosa che avevo scelto senza pensare al mio lavoro e che invece finisce per illuminarmi sulla mia stessa pratica.
Rileggo spesso le poesie di Alejandra Pizarnik, con la quale sento un forte legame. Un libro che mi ha ispirata molto di recente è Il corpo lesbico di Monique Witting. Mi piacciono molto i film di Yorgos Lanthimos e di Leos Carax. Poi leggo molti saggi.
C’è una ricerca continua che plasma il mio immaginario e i miei ideali, in primis come persona. Inevitabilmente questa parte si interseca con il lavoro e così alcune opere possono diventare un incipit per parlare di tematiche che mi stanno a cuore.
Però c’è anche una parte immanente alla pittura, vagamente dissociativa, che riguarda solo e soltanto il processo e la materia. Penso alla tela come a un’interfaccia permeabile, una membrana capace di assorbire, inglobare e risputare informazioni e segni.
Che spazio occupa la natura nella tua pittura?
Nonostante le forme biomorfe, fitomorfe e organiche che emergono nei miei dipinti, non dico spesso di ispirarmi alla natura, in quanto credo che la nostra idea di “natura” sia un costrutto complesso e problematico. Molte volte, i miei riferimenti vengono da quelle che James Elkins chiama “informational images”, ovvero tutte quelle che non hanno direttamente a che fare con le belle arti e che “la storia dell’arte ha trattato […] come fonti subalterne per l’interpretazione delle belle arti, piuttosto che come immagini interessanti di per sé”. Tra queste ci sono quelle scientifiche, mediche e anatomiche di varie epoche, che sempre Elkins definisce come “l’ombra delle rappresentazioni del corpo nelle belle arti”.
E invece, tra gli artisti visivi, senti di poter dichiarare delle influenze?
Guardo arte di periodi estremamente diversi; allo stesso tempo, cerco di mantenere la distanza necessaria a non rendere il mio lavoro derivativo. Quando osservo il lavoro di altri, cerco di percepire una vicinanza di pensiero. Spero che i miei riferimenti e gli artisti che amo risuonino indirettamente nel mio lavoro. Scegliendone tre dal secolo scorso: Georgia O’ Keeffe, Hilma Af Klint, Forrest Bess.
Hai 28 anni e all’attivo diverse mostre significative, come quella – recente – alla Fondazione La Rocca di Pescara o alla galleria Massimo Minini di Brescia. Come valuti la tua condizione di artista in Italia alla soglia dei trenta? Quali occasioni ti piacerebbe avere e quali sono i tuoi prossimi progetti?
Negli ultimi anni ho cercato di iniziare a costruire un mio network e di fare esperienze qui in Italia che, appunto, fossero significative e creassero una buona base. Rimanere qui mi ha permesso di sviluppare una grande costanza nella mia pratica. Tuttavia, sento che presto avrò l’esigenza di spostarmi maggiormente e spero di avere occasione di fare più esperienze all’estero.
Per quanto riguarda la soglia dei trent’anni, mi auspico che diventi sempre meno un confine cruciale; a volte ho la sensazione che prima si venga percepiti un po’ meno seriamente e, subito dopo, sia molto frequente sentire di non aver fatto abbastanza.
I miei progetti più imminenti sono una residenza a Dolomiti Contemporanee e una mostra collettiva a Spazio Contemporanea (Brescia), curata dalla galleria The Address.
Chi è Ludovica Anversa
Ludovica Anversa è nata nel 1996 a Milano, dove vive e lavora. Ha studiato Pittura e Arti Visive alla NABA di Milano. Le figure nei suoi dipinti abitano spazi non-narrativi, nei quali il corpo emerge come entità permeabile e ricettiva. La sua pittura esplora il confine tra figurazione e astrazione, aprendo un vasto spettro di ombre e impressioni, presenze ambigue e vulnerabili. Ha partecipato alle residenze di Manifattura Tabacchi, Firenze (2020) e Palazzo Monti, Brescia (2020). Le sue mostre includono: Fondazione La Rocca, Pescara (2024); MAC Museo d’arte contemporanea, Lissone (2023), Galleria The Address, Brescia (2023), Galleria Massimo Minini, Brescia (2022), New Galerie, Parigi (2022); ArtNoble, Milano (2021); Galleria Renata Fabbri, Milano (2021); Fondazione Adolfo Pini, Milano (2018). Nel 2021 è stata la vincitrice del Premio Francesco Fabbri per le Arti Contemporanee.
Saverio Verini
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