Tra realtà, visione e artificio. Intervista all’artista Chiara Fantaccione
Parte l’indagine che affronta il rapporto tra paesaggio e arti visive interpellando l'artista umbra che, tra fotografia e new media, costruisce nuovi mondi possibili
Umbra di nascita, e romana d’adozione, Chiara Fantaccione (Terni, 1991), si laurea in Arti Visive all’Accademia di Belle Arti di Perugia, per poi specializzarsi nella Capitale, presso la Rufa – Rome University of Fine Arts.
Membro attivo di Spazio In Situ, artist run space di Roma, dal 2017 l’artista annovera nel suo curriculum diverse mostre collettive e bipersonali tra il Lazio e l’Umbria, tra cui ricordiamo: Sunset Boulevard, a cura di Nicoletta Provenzano e ospitata negli spazi di Curva Pura a Roma, Fotoelettrico presso Ma Project a Perugia a cura di Davide Silvioli, e Solar Dogs, presentata a Spazio In Situ e a cura di Caterina Salimbeni.
Tra installazioni, video e fotografie, Fantaccione focalizza la sua ricerca sull’utilizzo dell’immagine e, più precisamente, sulla sua sovrapposizione alla realtà che trova forma nel paesaggio e nei suoi molteplici elementi.
Intervista all’artista Chiara Fantaccione
Cosa rappresenta per te il paesaggio?
Con la mia ricerca artistica cerco di approfondire i sistemi di rappresentazione, attraverso i generi che, seguendo modelli e principi, hanno formato la nostra cultura visiva. Ho iniziato quindi a interessarmi al paesaggio per via dell’universalità dei caratteri che lo compongono: a differenza di un ritratto, il paesaggio è un riflesso del collettivo, del comune, del condiviso, includendo nella sua definizione un processo culturale.
Spiegaci meglio…
Paradossalmente quello che mi affascina maggiormente del paesaggio è la sua componente “artificiale”: nel saggio Filosofia del paesaggio di G. Simmel viene esposto un concetto per me illuminante e fondamentale, cioè che il paesaggio, pur essendo senz’altro naturale, non è qualcosa di già dato dalla natura; il paesaggio è piuttosto frutto dell’azione umana dell’osservare, delimitare e ordinare secondo criteri formali.
E come lavora l’artista a partire da questa consapevolezza?
Questa azione ha delle evidenti somiglianze con la pratica fotografica o pittorica del delimitare, inquadrare, comporre, implicando una scelta che è solo in parte soggettiva. La cultura visiva fa sì che il paesaggio sia tale per qualunque essere umano, il quale inserirà all’interno della propria immagine (reale o immaginata) elementi e cromie che preferisce, ma pur sempre appartenenti ai suddetti criteri formali. Gli elementi che lo compongono sono accessibili a chiunque, trascendendo le particolarità di un luogo specifico, ma danno origine a sensazioni e stati d’animo del tutto personali. Quello che più mi interessa è l’idealizzazione, lo stereotipo, la costruzione di un concetto di paesaggio legato all’esperienza visiva dell’osservatore, che avrà sempre dei punti in comune con la mia e quella di chiunque altro.
L’immagine come prodotto
La tua ricerca si basa “sull’utilizzo dell’immagine nell’era contemporanea, e in particolare sulla sua sovrapposizione alla realtà”.
La mia ricerca si concentra sul legame profondo tra la nostra cultura e il mondo dell’immagine, mi interessa esplorare come queste immagini abbiano assunto un ruolo predominante nella nostra percezione del mondo, ormai così radicate nella nostra esperienza visiva che tendiamo a darle per scontate, eleggendole a parte integrante della nostra realtà. Tutto ciò che vediamo lo abbiamo già visto, persone e luoghi diventano anonimi chiunque e ovunque, ri-conosciuti attraverso immagini mediate da schermi. L’immagine non è più pubblicità e comunicazione, è prodotto e icona. Siamo produttori e consumatori di immagini che non solo rappresentano la realtà, ne fanno parte, talvolta superandola e stravolgendola a proprio piacimento. Mi interessa esplorare il nostro grado di confidenza con queste immagini: i generi visivi, le icone della storia dell’arte, i colori di un tramonto come con quelli di filtri fotografici e massicce postproduzioni; analizzare la ricerca spasmodica della rappresentazione perfetta, in cui la verità è solo una delle possibilità.
Che forme assume il paesaggio – o la sua immagine – quando si relaziona con la fotografia e con i dispositivi digitali?
Nei miei lavori c’è spesso una stretta connessione con la fotografia e con i dispositivi che ad essa sono collegati. Che sia per gli strumenti usati, per linguaggi e composizioni, per terminologie e processi tecnici, la fotografia rimane il fil rouge delle mie opere. Per fotografia intendo il processo di creazione dell’immagine: per capirci, sto scattando una fotografia anche nel momento in cui digito il prompt dell’immagine AI che voglio ottenere, il quale se necessario conterrà tutte le informazioni tecniche che metto in atto nello scatto manuale da reflex; allo stesso modo mi interessa molto il concetto di postfotografia, ovvero tutti i processi e fenomeni ibridi legati alla produzione e ri-produzione di immagini come fenomeni automatizzati e svincolati dalla mano umana.
Perlopiù le mie opere assumono forme tridimensionali, altre volte invece utilizzo il medium fotografico come riflessione sulla fotografia stessa, come ad esempio nella serie Before the visible lights che esplora l’abitudine di vedere immagini pesantemente postprodotte come realtà anziché come alterazioni. Utilizzando una tecnica fotografica che filtra i raggi solari per far passare solo le frequenze infrarosse, che interagiscono con il verde delle foglie, ottengo tonalità alterate di paesaggi fiabeschi e artificiosi, spostando l’azione dall’ambiente digitale della postproduzione a quello fisico e concreto dell’interazione con la luce.
La cultura visiva: tra realtà ed elaborazione
“Quando il computer ci fa effettivamente ‘vedere’ ciò che normalmente non possiamo vedere, o persino quando agisce come medium trasparente in una videochat, non si limita a riportare quello che sta dall’altra parte: lo elabora”. Sei d’accordo con quanto sostiene la studiosa dei media digitali Wendy Hui Kyong Chun in “Come vedere il mondo” di Nicholas Mirzoeff?
Questo è senz’altro un aspetto fondamentale che tendiamo a dare per scontato quando ci approcciamo a un’immagine digitale, il fatto che quello che percepiamo come fenomeno visivo sia frutto di calcoli, trasposizioni di codici, elaborazioni compiute da macchine che assemblano dati e formano immagini e video. Decisamente meno romantico dello scrivere con la luce che l’etimologia del termine ‘fotografia’ lascia intendere. Pur includendola in ogni nostra azione quotidiana, ogni nuova tecnologia sembra minare l’aura dell’opera d’arte, ma come è ovvio che sia l’arte parla del proprio tempo e lo fa con il linguaggio che ad esso appartiene.
Trovi assonanze tra questa affermazione e la tua pratica artistica?
Mirzoeff parla di “un modo di vedere il mondo reso possibile dalle macchine” e, come dicevo, questo è un aspetto al quale sono molto legata. Indagare l’aspetto meccanico e automatico della produzione di immagini, oltre che della loro fruizione, interrogandosi sulla necessità o meno della presenza umana nel processo. Questo stimola degli interrogativi rispetto al nostro presente, anche riguardo alla veridicità di ciò che osserviamo, che è sempre filtrato da un’azione della macchina, a sua volta frutto di creazione umana. Mi piace stravolgere i punti di vista e stimolare dei dubbi su come l’umanità soddisfi il bisogno di rappresentare il mondo, anche attraverso contaminazioni tra reale e virtuale.
Uno dei miei lavori recenti, The world I know, è un video in CGI in cui la voce narrante appartiene a un drone che planando sopra un’ambientazione post-umana genera un report visivo che lo porta a interrogarsi sulla natura di ciò che vede, oltre che su sé stesso. Partendo dalle teorie di Schopenhauer su “Il mondo come volontà e rappresentazione” nel video cerco di mettere in evidenza le contraddizioni dei binomi macchina-uomo, algoritmo-esperienza, ponendo l’accento sull’assenza/presenza umana dal processo di creazione delle immagini, accentuata dal contesto del virtuale.
Valentina Muzi
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