98 anni e non sentirli. Intervista all’artista Nino Migliori
Nato nel 1926, il maestro Migliori ha quasi cent’anni, ma sembra non sentirli. E lo dimostra questa simpatica intervista che gli abbiamo fatto in occasione della sua mostra a Milano
“Maestro, intanto grazie”.
“Non gli piace quando lo si chiama così”, dice Marina, sua moglie.
Lui ride di gusto e risponde “Grazie a te”. Comincia così l’intervista in quattro tappe (studio – macchina – “sprizzata” al bar – studio) a uno dei più importanti artisti contemporanei, Nino Migliori (Bologna, 1926), in occasione della mostra personale SETTANTA nei grandi e luminosi spazi di M77 Gallery a Milano.
L’intervista a Nino Migliori. Prima tappa: nello studio
Vorrei cominciare con una citazione che Barthes ha scritto nel celebre saggio La camera chiara, in cui afferma che “la fotografia è violenta, non perché mostra delle violenze ma perché ogni volta riempie di forza la vista e perché in essa niente può sottrarsi e neppure trasformarsi”. Ti ritrovi in questa definizione?
Non molto. Per me la fotografia è un discorso, perché sostituisce in maniera visiva la parola. Con essa si possono raccontare delle storie, parlandone bene o male. Ci si può fare quello che si vuole. Diciamo che la fotografia è un linguaggio che dà la possibilità di esprimersi come si vuole.
E dunque, quando hai realizzato la serie Natura Morta (dedicata all’arrivo degli imballaggi di plastica per frutta e verdura al mercato), che tipo di linguaggio era, cosa volevi esprimere?
Ero sempre stato abituato a vedere le cassette piene di ortaggi e frutti che si potevano anche toccare, oltre che vedere. Ecco, un bel giorno non è più stato possibile. Si toccava un altro materiale, la plastica, e non il suo contenuto, senza quindi sapere come fosse realmente, come e se sapesse di qualcosa. È stato uno shock per me e ho voluto mostrarlo, comunicarlo. È stato un momento importante, di passaggio, per la società degli Anni ’70.
L’intervista a Nino Migliori. Seconda tappa: in macchina
Ci trasferiamo in macchina, per andare a pranzo in un bar nei dintorni dello studio, dove Migliori è conosciuto, non in quanto celebre e riconosciuto artista, ma come persona. E per aver coniato il termine sprizzata, ossia pranzo a base di spritz e pizza bolognese. La moglie Marina è alla guida.
Torniamo all’effetto shock che hai avvertito con l’arrivo della plastica.
La giustificazione per questa novità era quella di non far toccare la frutta alla gente con le mani. Diventava dunque più igienico, ma nettamente meno piacevole.
Oggi la plastica – all’epoca benvenuta – è una questione molto discussa. In un certo senso, sei stato un fotografo che ha visto oltre, che ha indagato in anticipo i contro del cambiamento.
Certamente.
Quali sono i lavori in mostra a cui sei più legato?
… Marina (rivolgendosi a sua moglie), dimmi che foto ci sono in mostra, perché non me lo ricordo.
… Sicuramente Sesso Kitsch. È un lavoro che m’interessa perché è un cambiamento d’interpretazione di ciò che si vede, il che è da sempre un fatto culturale, espositivo, legato a una questione mentale. Si tratta di una sorta di violenza rispetto ai cambiamenti della moda e del vestirsi. Questo, di conseguenza, muta anche l’occhio di chi guarda un corpo.
Nella tua vita, nel passato quanto nel presente, hai viaggiato molto. Tuttavia, Bologna è la città in cui abiti da sempre. Qual è stata ed è la calamita che ti ha tenuto legato a lei?
Al di fuori delle ragioni affettive, di Bologna mi piace il modo in cui pensano i cittadini, molto popolare, semplice, assai vicino alla fotografia. E poi apprezzo la gente e il fatto che i rapporti interpersonali siano genuini.
Durante gli Anni ’60 e ’70, l’arte avanguardista in Italia era in molto in auge e molti artisti nazionali – tra cui anche tu – e stranieri, ne popolavano la scena. Su Bologna, mi viene in mente la performance Imponderabilia, realizzata da Marina Abramović e Ulay il 2 giugno 1977 alla Galleria Comunale d’Arte Moderna. Oltre a loro, però, si affermarono figure come Peggy Guggenheim, con la quale tu stingesti un importante rapporto d’amicizia. Tra tutti questi volti, quali sono quelli che ti hanno dato maggiormente dal punto di vista non solo personale, ma anche lavorativo?
Dunque, dal punto di vista personale, un’infinità di persone. Ho sempre cercato di avere contatti con gli artisti per fotografarli, con l’intenzione di capire il loro modo di pensare, attraverso gli scatti, ma anche in dialogo. Usavo la macchina fotografica come mezzo di esplorazione e di interpretazione del personaggio che avevo di fronte.
Frequentavo certi artisti per curiosità, per vedere come si esprimevano fuori dai contesti istituzionali. Regalavo loro i miei ritratti, pur di vedere come si sarebbero comportati nel mio studio, fuori dalla loro zona di comfort. E questo era vero sia prima della fama, sia dopo.
Qualche nome particolare?
Sicuramente i bolognesi, come Vasco Bendini. Certo, tutti quelli con cui ci mi ritrovavo come pensiero, al fine di rompere gli schemi. Gli Informali. Ma anche Giorgio Morandi, noto per essere abbastanza competitivo, ma non con me, perché io ero un fotografo e lui no.
Anche con Dario Fo, per caso? Nella tua mostra da M77 c’è infatti un’importante serie a lui dedicata: scatti da un suo spettacolo televisivo degli Anni Settanta.
Esatto. Sin dai miei esordi ho sempre cercato di fotografare tutte le persone che conoscevo, perché per me la fotografia è parola, descrizione, come ho già detto. Non sono capace di scrivere, di parlare, ma con questo mezzo credo di riuscire a esprimermi al meglio. Le sequenze dedicate a Dario, spiegano benissimo il concetto, anche se lui non era fisicamente di fronte a me.
Lo stesso vale, ad esempio, per il lavoro su Montale, anche quello tratto dalla televisione. Tutte queste opere si mostrano in sequenza, proprio come le scene di uno spettacolo. La mia costante è il processo di avvicinamento alle persone.
L’intervista a Nino Migliori. Terza e quarta tappa: al bar e di nuovo in studio
Ci fermiamo, ed entriamo nel bar tanto caro a Migliori. Non sembra di stare in città, ma piuttosto in un luogo indefinito, tra cemento, traffico, turisti, ma anche natura e campi di grano. Una volta arrivata la spritzetta, riprende l’intervista, che poi si conclude nuovamente nel suo studio.
E Peggy Guggenheim, com’era?
Una persona straordinaria e molto curiosa, aperta.
Passiamo ai piccioni: animali che non tutti amano, ma a cui tu hai dedicato la serie Inimmaginabile, anch’essa visibile nella tua personale milanese. Li hai resi creature altre, come se le avessi estrapolate dall’idea di base. Non è un caso che al centro della monumentale installazione vi sia la Polaroid originale.
La serie gioca sul doppio significato delle foto: guardandole singolarmente non si immagina da dove derivino, né quale sia la loro vera origine. Sono quasi opere astratte.
Ho voluto porre l’attenzione su dettagli specifico della fotografia al centro, quello con cui mi sono relazionato di più a livello visivo e mentale. Lo stesso approccio l’ho utilizzato per altri soggetti, come per i muri che apportavano scritte, lettere, cancellate (Lessico distratto, 1975).
Stai lavorando a nuovi progetti?
Sì. Una mostra a novembre, a Bologna, dedicata ai gioielli da me realizzati partendo da una fotografia, come facevo in passato sin dagli Anni ’40, precisamente dal ’48, periodo in cui ho cominciato a sperimentare sulle ossidazioni.
Il prossimo ritratto quale sarà?
Il tuo.
Ilaria Introzzi
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