Milano riscopre Niki de Saint Phalle: l’artista che si salvò con la pittura
Nell’autunno 2024 l’artista franco-americana è protagonista di una grande mostra al MUDEC. È l’occasione per raccontare tutto sulla sua storia: dalle violenze subite da bambina, al grande amore per Tinguely, all’arte che le salvò la vita
Tra le grandi donne dell’arte del Novecento da riscoprire, spicca l’autrice che diede vita al popolo delle Nanas. Sculture femminili dalle forme accentuate all’inverosimile, dipinte con colori sgargianti, e di dimensioni così grandi da essere in alcuni casi persino abitabili. Parliamo di Niki de Saint Phalle, artista franco-statunitense spesso associata al movimento del Nouveau Réalisme, protagonista nell’autunno 2024 di una grande mostra monografica al MUDEC di Milano.
Malgrado le tinte accese e i soggetti delle sue opere sembrino esprimere in apparenza gioia di vivere e positività, la sua vita non fu scevra di brutte esperienze, che anzi la segnarono in profondità. A salvarla fu la pittura: pratica che divenne per lei un mezzo di liberazione, una cura per la sua anima, intesa a esprimere messaggi di libertà. In attesa dell’esposizione, ripercorriamo tutta la storia di Niki de Saint Phalle, dall’infanzia fino al celebre Giardino dei Tarocchi, che – per chi non lo avesse ancora fatto – è visitabile proprio in Italia, in Toscana, a poca distanza da Grosseto.
Per punti
Chi era Niki de Saint Phalle
La giovinezza
Niki de Saint Phalle è in realtà lo pseudonimo di Catherine-Marie-Agnès Fal de Saint Phalle (Neuilly-sur-Seine, 1930 – San Diego, 2002), nata in Francia a Neuilly-sur-Seine, figlia di un ricco banchiere francese e di un’artista americana. La Grande Crisi del ‘29 colpì duramente l’attività della famiglia, costretta a trasferirsi a New York qualche anno più tardi.
L’infanzia della futura artista non fu rosea, segnata da rapporti familiari duri e violenti – come racconterà in seguito – che culminarono verso gli undici anni, quando suo padre abusò di lei. Un evento che l’avrebbe segnata per tutta la vita, diventando la causa di fondo dei suoi tormenti, “curati” grazie alla pittura.
Le sperimentazioni teatrali e la crisi
Intorno al 1948, le prime inclinazioni artistiche di Niki si manifestarono in direzione del teatro e della recitazione: avrebbe voluto diventare attrice. Dopo aver posato come fotomodella per riviste di moda – Vogue, Life, Harper’s Bazaar – prese la strada del cinema. In quegli stessi anni, sposò lo scrittore Henry Matthews, con cui si trasferì a Parigi. Poco tempo dopo, però, una profonda crisi nervosa la sconvolse, spingendola quasi al suicidio, tanto che fu ricoverata in una clinica di Nizza. A salvarla fu la scoperta dell’arte.
La salvezza nella pittura
Pervasa dai tormenti emotivi e interiori, Niki trovò sollievo nel dipingere. Vedeva in questa pratica un canale potente con cui esprimersi e liberarsi dalla rabbia e e dal disagio, dovuti al riemergere delle violenze d’infanzia nella memoria. Forte di questi benefici, decise di dedicarsi completamente alla pittura, riuscendo a esporre nella sua prima mostra in Svizzera, nel 1956.
La relazione con l’artista Jean Tinguely
Fu durante il soggiorno in Svizzera che Niki de Saint Phalle conobbe Jean Tinguely, uno dei maggiori protagonisti dell’arte cinetica. Tra i due nacque un’affinità artistica che li portò – quando lei si fu separata dal marito – a condividere uno studio a Parigi. Erano gli Anni Sessanta, epoca in cui realizzò i suoi primi Tiri di vernice, emblema del gesto pittorico di rivalsa e liberazione dalle violenze passate.
A poco a poco – grazie anche al suo nuovo compagno che la introdusse nell’ambiente artistico parigino – la sua fama crebbe, inquadrandola nel movimento nascente del Nouveau Réalisme.
Le Nanas
In parallelo alla serie dei Tiri, Niki cominciò a sperimentare con la rappresentazione del corpo femminile, ispirata dalle forme dell’arte tipica dell’Africa Nera e del Centro America. Ne nacquero le sue celebri Nanas, le sculture dai sembianti di donna archetipica, coloratissime e dall’intento ribelle e liberatorio. Lo si intende bene dall’esemplare costruito nel 1966 per il Museo d’Arte Moderna di Stoccolma. Hon / Elle. Una grandissima Nanas abitabile a forma di donna incinta, lunga 28 metri, distesa su un fianco come se stesse per partorire. Nei due seni vi erano rispettivamente un piccolo planetario e una cucina; per entrare bisognava passare dalla vagina. Le polemiche che generò nella critica si immaginano facilmente.
Il Giardino dei Tarocchi
Dopo anni di distanza dalla separazione dal primo marito, Niki sposò Tinguely, con cui già da tempo viveva e lavorava; il legame inizialmente artistico non tardò a divenire anche sentimentale. Legame, il loro, che sul piano di lavoro diede vita a grandi opere, come la Fontana Stravinsky, esposta a Parigi, davanti al Centre Pompidou.
Il più grande esito della collaborazione tra i due artisti è però il Giardino dei Tarocchi: un parco abitato da enormi sculture (in parte abitabili) realizzate da Niki de Saint Phalle con l’aiuto del marito. Fondamentale fu il suo contributo tecnico – Tinguely era infatti esperto nella creazione di installazioni meccaniche – per la costruzione delle anime metalliche delle opere. Ciascuna infatti è retta da uno scheletro di ferro, rivestito poi di cemento, ed è decorata con un mosaico multicolore di specchi, vetri e ceramiche. Ventidue elementi in totale, disseminati nel verde del parco di Garavicchio, in Toscana. Un terreno concesso per il progetto da Marella Caracciolo Agnelli – moglie di Gianni Agnelli – che la pittrice aveva conosciuto durante un soggiorno a Saint Moritz.
Guardando ai colori e alle forme fantasiose delle sculture, si può intuire quello che fu nei fatti il “precedente”, nonché fonte diretta di ispirazione: il Parco Guel di Gaudì, visto dall’artista durante un viaggio a Barcellona.
Per quel che riguarda i soggetti, il nome del Giardino è invece parlante. Le ventidue opere incarnano altrettanti arcani, protagonisti delle carte dei tarocchi. La sfinge, il vescovo, le streghe, e così di seguito.
Gli ultimi anni
Dopo la grande impresa del Giardino dei Tarocchi, Niki si trasferì in California, dove creò una serie di serigrafie dal titolo Diario californiano. Gli ultimi anni di produzione videro inoltre il ritorno dell’artista nel mondo del cinema, con alcuni nuovi film, tra cui Ofelia e il drago.
I maggiori contributi artistici di Niki de Saint Phalle
Come sottolinea la curatrice Lucia Pesapane nel presentare la mostra che il MUDEC le ha dedicato per il 2024, Niki de Saint Phalle è stata una delle maggiori artiste del Novecento. La sua importanza è da riconoscere nell’uso che fece della pittura e dei media anche digitali per promuovere la sua arte e dimostrare il suo sostegno verso i più fragili. Le sue esperienze d’infanzia le lasciarono una grande sensibilità, che le permise, poi, di dare vita a opere che – nella loro gioia di forme e colori – diventano un inno alla libertà, alla diversità e una ribellione agli stereotipi sociali.
Per entrare nel vivo della poetica di Niki de Saint Phalle, approfondiamo ora due delle sue serie chiave: i Tiri e le Nanas.
I Tiri di Niki de Saint Phalle
Si tratta precisamente dei cosiddetti shot painting, o tiri di pittura. Opere realizzate con veri e propri spari di carabina, che colpivano sacchetti pieni di vernice, appesi sopra tele o supporti di gesso. A sparare era l’artista, ma spesso anche il pubblico, coinvolto attivamente in vere e proprie performance creative. L’importanza di questi lavori all’interno della produzione di Niki de Saint Phalle è da ricercare nel significato attribuito al gesto pittorico. I Tiri erano per lei uno sfogo, un canale attraverso cui liberarsi e rifarsi dalle violenze subite da piccola. Non a caso, alcuni dei supporti colpiti dagli spari di pittura erano proprio figure maschili.
Le Nanas
Le opere più celebri di Niki de Saint Phalle sono però senza dubbio le Nanas. Termine ripreso dallo spagnolo, ove significa ragazzina di piccola statura. Accezione chiaramente ironica, in rapporto alle sculture effettive: enormifigure femminili, che vanno dalla grandezza naturale fino a diventare giganti installazioni abitabili. Tra le loro fonti di ispirazione c’e sicuramente Antoni Gaudì, così come l’arte africana e sudamericana e le Veneri paleolitiche (si veda ad esempio la ben nota Venere di Willendorf).
Le Nanas – nella loro joie de vivre variopinta – si fanno portatrici di un messaggio di sostegno alla diversità e di lotta agli stereotipi femminili di streghe, prostitute e madri divoratrici.
Emma Sedini
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