Solo che amore ti colpisca. Poesia e fotografia in mostra a Palermo
Prodotta dal Museo Riso di Palermo, la mostra è frutto di una ricerca tra parole e immagini, accostando idealmente poesia e fotografia di autori siciliani. Ne emerge un’immagine della Sicilia, attraverso chiaroscuri, metafore, memorie. Il racconto della mostra, insieme alla curatrice.
È un’esposizione colta, raffinata, capace di coinvolgere nel profondo, quella proposta dal Museo Riso, a Palermo, negli spazi del settecentesco Albergo delle Povere: tre dei sei grandi saloni rettangolari che scandiscono gli ambienti del pianterreno hanno cambiato pelle grazie al progetto “Solo che amore ti colpisca. Appunti dall’isola plurale, tra poesia e fotografia”, ideato e curato da Helga Marsala. Uno di quei casi che dimostrano come da un approccio fortemente intellettuale non derivino necessariamente soluzioni elitarie, generando emozioni e riflessioni in un pubblico ampio, tra molti e diversi livelli di approfondimento.
Il titolo trae ispirazione da una celebre lirica di Salvatore Quasimodo, che sul finire recita: Ricorda che puoi essere l’essere dell’essere / solo che amore ti colpisca bene alle viscere. Nel cuore di una visione ermetica, i versi sembrano suggerire il compimento di un processo di trasformazione interiore, tra spirito selvatico ed essenza più pura, caduta ed elevazione.
Artisti e poeti in mostra a Palermo
Il progetto riunisce artisti e poeti siciliani di diverse generazioni, creando un dialogo metaforico e insieme concreto tra importanti voci della produzione novecentesca o contemporanea. “Scrittura di luce la fotografia, segno che immortala e proietta il reale verso l’infinito; folgorazione luminosa la poesia, in cui la parola è immagine che custodisce una luce alta, assoluta”: così ci racconta Helga Marsala, che ha accostato le liriche di grandi autori, tra cui lo stesso Quasimodo, Ignazio Buttitta, Emilio Isgrò, Giacomo Giardina, Helle Busacca, Joanda Insana, Angelo Scandurra, Bartolo Cattafi, Maria Attanasio, Sebastiano Addamo, i protagonisti dell’Antigruppo, passando da Consolo e Bufalino, fino a firme più giovani come quelle degli artisti/poeti Francesco Balsamo, Pietro Palazzo, Elias Vitrano. “Un’antologia parziale e personale, costruita per temi e in accordo con le opere, muovendosi tra stralci di una lingua soprattutto sperimentale, dirompente, a volte irriverente, altre più classica, ma comunque capace di scavare e produrre visioni”; antologia che abita lo spazio grazie al progetto grafico di Federico Lupo, con type design di Francesco De Grandi: la scrittura trova posto lungo pareti verde acqua, che come enormi fogli o quinte scenografiche scandiscono il percorso tra opere appese o poste al centro delle sale, libri custoditi dento teche, poesie accostate alle immagini o singoli versi stampati in oro e liberati sui muri, gli spigoli, i bordi interni delle nicchie e gli archi a soffitto.
La mostra “Solo che amore ti colpisca” a Palermo
“È una mostra concepita come una grande installazione – aggiunge Marsala – un’opera unica composta da decine di opere e documenti, alla stregua di un atlante, un libro scompaginato nello spazio, in cui parole, immagini e architettura si collegano per mezzo di riflessi, rimandi, finestre, frammenti, aperture. Identità e memoria dell’isola, in quanto sostanze mobili, continuano a ridefinire i luoghi, le cose, le voci e gli sguardi che di questo stesso atlante sono materia prima”.
Il materiale si organizza secondo nuclei tematici, che affrontano una varietà di argomenti evocativi e simbolici, dall’archeologia al paesaggio, dalle ombre del potere alla psiche, dal mare alle migrazioni, fino alla dimensione del ricordo e del relitto. Alcuni artisti utilizzano la fotografia come mezzo principale, altri la scelgono in forma di materiale d’archivio, sperimentando con tecniche miste: “Mi interessava indagare la fotografia in tutte le sue forme, lavorando intorno allo statuto dell’immagine fotografica e non necessariamente alla pratica più comune di chi scatta. Con la fotografia più vicina al reportage e con quella che deriva da esplorazioni interiori, convivono fotografie intese come objet trouvé, fedelmente riportate oppure manipolate, o ancora foto utilizzate come spunti concettuali, come materia duttile per la pittura e l’installazione, come pratiche di studio e osservazione quotidiana, come documentazione di azioni nello spazio urbano.
La Sicilia e la sua archeologia
Le prime due sezioni, “Mythos, Templum, Archè” e “Origine”, attraverso riferimenti all’archeologia svelano i segreti dell’origine e indagano le radici dell’esistenza, l’orizzonte del mito: un passato lontano, un’eco di vite vissute e di civiltà scomparse. Origine che è mistero avvolto nel silenzio delle ere, racconto scritto nelle pietre, nei fossili, nei resti antichi. È la storia dell’umanità, tracciata con cura da speleologi e archeologi, con il loro paziente portare alla luce. “Da Giulia Parlato a Sergio Zavattieri, passando per Adalberto Abbate e Ignazio Mortellaro, si confondono finzione e realtà, documento e romanzo, studium e incantesimo, osservazione e immaginazione: un modo per ribadire quanto la fotografia non sia, o meglio, non sia mai stata riproduzione del reale, ma sua interpretazione, alterazione e dilatazione”. Preziosa la quadreria che espone per la prima volta alcuni esemplari originali tratti dall’archivio storico fotografico del Museo Archeologico Salinas: in uno scarto temporale tra passato e presente, queste dialogano – oltre che con alcuni scatti di Parlato – con le foto di Iole Carollo dal ciclo No memory, che nel 2016 documentavano i reperti del museo conservati tra sale temporanee, durante i lavori per il riallestimento.
La natura, tra poesia, fotografia e non solo. In mostra a Palermo
Segue la sezione sulla rappresentazione del paesaggio naturale, accompagnata da speculazioni cosmologiche e scientifiche, suggerendo riflessioni intorno al nostro posto nell’universo, in mezzo a minerali, fotografie storiche e reperti vulcanici dalle collezioni del Museo Geologico Gemmellaro: “Nel bianco e nero di meditazioni malinconiche (Salvatore Arancio, Melo Minnella), nel verde squillante che dissimula l’orrore dei boschi divorati dagli incendi (Di Giugno), tra nature morte e animali tassidermizzati (Sandro Scalia, Gianni Cusumano), il senso della morte e della fine convive con la potenza vitale della natura. Morte che è sostanza invisibile della fotografia, come ha insegnato Barthes, nel suo rapporto con l’eterno e con il fantasma dell’oggetto sottratto alla linea del tempo. Le strutture geometriche e matematiche dell’universo si fanno intanto volumi eterni e perfetti nel lavoro di Zavattieri, con una grande nuova opera dedicata a una poesia di Cattafi e con i paesaggi mentali e le forme utopiche con cui Mortellaro, ancora tra morte e vita, imbastisce la sua filosofia della natura”.
Spiccano poi le diverse opere di Salvatore Arancio, artista che lavora su una vasta gamma di media: fotoincisioni su carta che raffigurano luoghi tellurici e viscerali come crateri, vulcani, grotte, insieme a elaborazioni digitali, con interventi a smalto, di illustrazioni prelevate da manuali di geologia, mentre l’emergente Danilo Currò, nella serie La componente magica (2024) trasforma elementi di paesaggi vulcanici in rappresentazioni cosmiche, galattiche. Ancora in tema di paesaggio, Studio Descrittivo di Base presenta un’opera ispirata alla poesia “Suoni” di Guido Ballo, tra rumori di natura, voci e luneddas.
Corpi, potere, psiche, all’Albergo delle Povere
La seconda sala, con la sezione Civis, Polis, Demos si focalizza su temi legati al soggetto umano, raccontato in chiave pubblica e politica, con immagini di gesti, luoghi, simboli collettivi, linguaggi ed emblemi del potere (dalla serie Politico di Cipriano alle bandiere modificate di Di Giugno ), e poi in una chiave identitaria, intima, introspettiva: è questa la sezione su Corpi e Psyche, che ha il suo nucleo nella più ampia delle quadrerie in mostra, una composizione frammentata, dal forte impatto estetico ed emotivo, costruita con opere di Turi Rapisarda, Nerina Toci, Carmelo Bongiorno, Lia Pasqualino, Fabio Sgroi, Francesco Bellina: “L’allestimento non classico dà origine a un grande polittico, un coro, un’immagine teatrale molto personale, sgorgata da chissà dove: autori e opere si mescolano e si potenziano a vicenda, costruendo un racconto esistenziale fatto di solitudini, fragilità, follia, contemplazione, tenerezza, alienazione, sogni e incubi senza volto e senza nome. In dialogo, al centro, la doppia installazione di Daniele Franzella, macchina di tortura e di memoria, dedicata all’ex manicomio di Palermo, che ingloba una plaquette del 1984 contente la struggente poesia “Per un girdo” di Sebastiano Addamo”.
Si collegano gli autoritratti di Adriano Lalicata, “unità di misura di un paesaggio di periferia degradato, a Palermo” (dal ciclo Soglia bandita) e le conturbanti opere di Adalberto Abbate: Playing with death, la partita con la morte di un gruppo di ragazzi africani che giocano con un teschio, i presagi di guerra e di oppressione di No Future e An african and his death dream of landing in Europe (2024) – accostata ai versi di una canzone inedita di Angelo Sicurella – evocazione di un bassorilievo ligneo medievale, che ritrae un migrante in fuga con la morte sotto al braccio. E mentre Francesco Bellina fotografa la condizione umana in Africa, interpretando con immagini eloquenti la sezione “Naufragi, migrazioni”, il mare torna negli orizzonti e nelle isole della serie Oblò di Carmelo Nicosia, negli intensi scorci paesaggistici di Nerina Toci, nella poesia di Iolanda Insana trascritta su una scogliera di fronte Isola delle Femmine da Stefania Galegati, nei disegni dal tocco sapiente di Giorgio Bertelli, ispirati agli arcipelaghi siciliani, realizzati per una piccola pubblicazione di Vincenzo Consolo (Isole dolci del Dio, 2000) ed esposti qui per la prima volta, mentre una poetica immagine subacquea di Melo Minnella rende omaggio al blu di Filicudi.
“Sono diverse le opere inedite che abbiamo voluto realizzare ad hoc per la mostra, partendo in molti casi da versi che io stessa ho voluto porgere agli artisti, come in un dialogo. Tra queste quella di Salvatore Arancio ispirata a “Il raggio verde” di Lucio Piccolo, un’immagine variopinta, squillante, quasi astratta, ottenuta dal montaggio e la manipolazione digitale di fotografie che documentano questo particolare fenomeno ottico, con un successivo prezioso intervento a pastello”.
Il tema della memoria in mostra a Palermo
Se la mostra è concepita come un grande libro nello spazio, sfogliando o attraversando la terza sala possiamo percepire il tempo che scorre: ogni pagina è un ricordo, un segno, un frammento di ciò che siamo stati e di ciò che siamo diventati. “Quello che resta” e “Album, polvere, memorie”, sono i titoli delle due sezioni finali: “È una sala intitolata al senso della memoria, quella dei luoghi, degli archivi, degli affetti, a partire da una metafisica dell’oggetto sospeso, defunzionalizzato, sfocato e sbiadito dall’azione della memoria, inghiottito dalla nebbia (Carmelo Bongiorno, Pietro Motisi, Melo Minnella, Andrea Di Marco); e poi struggimenti riemersi da cassetti impolverati, carteggi di amanti, vecchie macchine fotografiche, lvolti di persone senza più identità né storia, gli scatti da un album di famiglia declinati in parole dalla poetessa Giorgia Stecher, ritratti amatoriali dal sapore domestico, come le stampe realizzate dalle celebri lastre che Bufalino trovò, negli Anni Settanta, nelle soffitte di alcuni appartamenti di Comiso: fu questo l’inizio della sua carriera di scrittore, grazie all’incontro con Sellerio”.
Alle voci di alcuni poeti siciliani, che risuonano nello spazio, corrispondono infine alcuni eccellenti ritratti firmati da maestri come Ferdinando Scianna (Attanasio, Buttitta, Giardina, Addamo), Walter Mori (Cattafi), Giuseppe Leone (Scandurra), Angelo Pitrone (Consolo), Uliano Lucas (Insana, Isgrò), Tano Cuva (Lucio Piccolo), fino alle mani di Quasimodo su un manoscritto autografo, immortalate da Federico Patellani.
Impossibile non soffermarsi sulle opere di Andrea Di Marco l’amato e talentuoso pittore palermitano, scomparso prematuramente: “fotografie piene di grazia, con una chiara cifra ghirriana, a cui offrire il peso e il valore di opere autonome, rispetto alla pittura che era al centro della sua ricerca ma che attingeva da questi delicati appunti urbani come da un taccuino poetico: da qui arrivano il silenzio, il vuoto, la magia e la potenza di umili cose superstiti, divenute forme eterne”, commenta Marsala.
Più avanti, l’occhio accurato e sensibile di Sandro Scalia riprende la deriva e l’abbandono di spazi postindustriali a Palermo, di archivi dismessi, di palazzi decadenti, fino ai ruderi del terremoto del Belice, fusi con la natura, mentre campeggia al centro della grande parete la serie inedita1992 diGianni Cipriano, che documenta quel che resta del tragico attentato a Giovanni Falcone, attraverso i resti delle auto del giudice e della scorta: le immagini in bianco e nero trasformano le macerie in potenti still life, narrazioni sospese e indelebili del tragico evento, come un “monumento fotografico” in memoria delle vittime.
Solo che amore ti colpisca. L’opera ispirata alla poesia di Quasimodo
La mostra si conclude con l’opera inedita Solo che amore ti colpisca, ispirata alla poesia di Quasimodo, intervento pittorico di Francesco De Grandi su un’immagine scattata da Fabio Sgroi tra i paesaggi rocciosi di Pantelleria: uno scenario cupo e surreale, in cui dei satiri sono figure dionisiache “che incarnano la potenza della natura, l’intreccio tra vita e morte, le pulsioni profonde e irrazionali dell’esistenza, il trionfo delle stagioni, il mistero del creato”. Anche in questo caso un lavoro di ricerca e di produzione: “Da questo esperimento di collaborazione è venuto fuori qualcosa di sorprendente: diventa difficile distinguere il punto in cui fotografia e pittura si separano, dal momento che i bianchi e i neri di Sgroi, carichi di densità espressionista, appaiono come materia pittorica, mentre l’apparizione fulminea di De Grandi immortala in uno “scatto” impossibile una scena ai confini del mito. È una trasposizione del paesaggio distopico immaginato dal premio Nobel siciliano, in cui spirito e materia si mescolano lungo verticalità e abissi primordiali”.
Della necessità di fare ricerca
Una mostra dunque da considerare, in sé stessa, come “opera”, se è vero che le mostre sono terreno fertile in cui coltivare la ricerca, creando occasioni di studio, privilegiando contenuti e qualità. Cosa non più così comune, in un sistema che spesso sceglie un più comodo vuoto a perdere, tra prodotti mediocri o mostre preconfezionate da acquistare: i musei, così come la critica, hanno in tal senso grandi responsabilità. Torna in mente quel concetto di esposizione che alcuni curatori e teorici – da Hans Ulrich Obrist a Carolyn Christov-Bakargiev – hanno ridefinito, in quanto parte essenziale del processo artistico e non semplice strumento di presentazione delle opere. “La tensione e la fatica della ricerca sono merce sempre più rara, è vero: in Sicilia, con le dovute eccezioni, si tratta di un deficit clamoroso”, risponde la curatrice. “I musei”, conclude “dovrebbero interrogarsi ogni giorno, la politica dovrebbe spezzare sistemi ammuffiti, naufragati, favorendo qualità, continuità, progettualità, approfondimento. Purtroppo, in molti casi, manca la consapevolezza. Quanto all’ipotesi che introduci, della curatela come pratica artistica, non posso che ritrovarmici con tutte le mie passioni, ispirazioni, incertezze. Nel rispetto pieno dell’autonomia di ogni artista, affiancandolo e ascoltandolo, resto sedotta dall’idea di costruire un progetto espositivo in termini di scrittura e di genesi: una maniera di generare visioni attraverso le visioni di altri. Le mostre non mettono in mostra, ma danno origine a racconti incompiuti e nuovi”.
Lori Adragna
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