Ambiguità e sottrazione nella mostra dedicata a Luciano Fabro a Milano
Alla Galleria Christian Stein bastano tre opere (esposte per la prima volta dopo decenni) per evocare la complessità di un artista già mitico come Luciano Fabro
La mostra dedicata a Luciano Fabro (Torino, 1936 – Milano, 2007) dalla Galleria Christian Stein si concentra su pochissime opere storiche, tornate in esposizione dopo decenni di assenza. Queste opere d’altronde, nella loro nuda essenzialità ed economia, si rivelano capaci di accumulare e concentrare più livelli di significato, di liberare metafore, di scatenare suggestioni, di resuscitare memorie e mitologie.
La mostra su Luciano Fabro a Milano
In sintesi è quello che Fabro intendeva già nel 1969 quando realizzò Quid nihil nisi minus, esposta per la prima volta alla Galleria La Salita: una semplice scritta incisa lapidariamente, che suonava come una polemica e come un rimpianto, per la tendenza, allora così in voga nell’arte, di sottrarre e di minimizzare, criticata come una sistematica rinuncia tanto alla techne quanto alla sua risonanza culturale ed emotiva, e come una resa alla piattezza e alla univocità dei significati. Significati che nell’opera d’arte sono invece molteplici, debordanti l’uno dall’altro come scatole cinesi. Ed è quanto emerge con dirompente evidenza negli altri due lavori esposti.
Luciano Fabro e l’ambivalenza della sua arte
AR, eseguita nel 1990 e consistente in due ampie pezze di tessuto, è un’opera che addirittura raddoppia le proprie virtuali condizioni di esponibilità, le proprie attitudini epifaniche: questi drappi, già mostrati distesi in passato, li vediamo qui raggrinziti e attorcigliati a formare le due grandi lettere maiuscole indicate dal titolo. Contrassegnati da chiazze colorate tipo macchie di Rorschach, questi velari nascondono ora nelle loro pieghe le segnature da cui sono contraddistinti per disvelarsi come lettera, verrebbe da dire per farsi verbo, sigla primordiale, formula allusiva: oggetti che assumono evidenza epigrafica nel momento in cui celano la loro dimensione piana e distesa con le sue macchie e i suoi colori, come se proprio nel loro ritrarsi in se stessi, nel loro raggrinzirsi trasmutassero lo statuto della loro significanza. La radice semantica indoeuropea AR è antichissima ed evocativa, rimanda alle primordiali attività umane, all’alba stessa dell’arte. Siamo dunque di fronte a un’opera bivalente, estensibile a differenti statuti di visibilità, che da piano figurale si attorce a sigla ancestrale, che si apre a un ulteriore livello di significato nel momento stesso in cui chiude il precedente, quello, appunto, che resta celato nelle sue pieghe.
Il giorno mi pesa sulla notte II, del 1994-96, è costituito da due lunghi cilindri di marmo nero, lisci e torniti, che, affiancati orizzontalmente sul pavimento, sostengono un blocco grezzo di onice. Le due colonne adagiate a terra sono punteggiate da piccoli tocchi di colore bianco e le loro basi presentano una serie di scanalature circolari che inducono a ravvisare in ognuno di quei cilindri un tappeto stellato arrotolato su se stesso, sul quale incomba, come un monolite informe, la pesantezza quotidiana del vivere.
Le parole del curatore Sergio Risaliti
Come conclude Sergio Risaliti nel testo introduttivo alla mostra, “i tre titoli e le opere formano una sorta di rebus, un testo composto di immagini e parole. C’è qualcosa di presocratico in queste tre opere. Qualcosa di primordiale. L’atto artistico che nasce dal desiderio di arricchire il mondo di bellezza, per dare un senso alla vita e alla morte, per continuare a contemplare il cosmo, il cielo stellato di notte anche quando il giorno pesa sulle nostre teste come un macigno. Contro la morte per disarmonia o regressione, come amava ripetere Fabro”.
Alberto Mugnaini
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