Scolpire la violenza. Le opere di Liao Wen in mostra a Venezia
Corpi umani, animali e vegetali dalle fattezze aliene raccontano i processi della violenza e le sue ambiguità. Nella sede veneziana di Capsule Shanghai, la prima mostra personale italiana di una delle più promettenti artiste cinesi del momento
L’immaginario di Liao Wen (Chengdu, 1994; vive e lavora ad Hong Kong) è perturbante e fervido: l’avevo capito quando, per la prima volta, avevo visto i suoi lavori nella mostra collettiva che la galleria Capsule Shanghai aveva realizzato negli spazi di Cassina Projects a Milano nel 2023; mi era stato confermato da un’altra collettiva, questa volta nella sede veneziana della stessa Capsule Shanghai solo un anno dopo; e proprio in questo luogo mi appare ancora più chiaro nella sua mostra personale, la prima in Italia. Dietro ciascuna di queste operazioni c’è la curatela di Manuela Lietti, meritevole – insieme alla galleria – di stare portando eminenti esempi dell’arte contemporanea cinese nelle nostre città. In contemporanea alla mostra di Liao Wen, lo spazio veneziano di Capsule ospita le mostre del tedesco Mevlana Lipp (Colonia, 1989), che indaga le intersezioni tra pittura e scultura, e dell’italiano Alessio de Girolamo (Sanremo, 1980), che presenta un progetto di sample dei suoni della natura e della città per ricreare partiture preselezionate e integrandole con diversi video dell’operazione in tempo reale.
La mostra di Liao Wen a Venezia
Le sculture di Liao Wen presentate da Capsule sono la dimostrazione che si può parlare di violenza senza rinunciare all’eleganza e alla raffinatezza. C’è violenza nella grande scultura che accoglie i visitatori al piano nobile, lo scheletro di una creatura marina simile a una balena sospeso a mezz’aria, le vertebre numerate, come fosse in un museo di storia naturale. Da animale a reperto da museo, da essere vivente a oggetto di studio e di stupore, la balena è qui un simbolo dell’appropriazione umana dei corpi più che umani. Una dinamica sottolineata dalla performance che attiva la scultura (mostrata in un video che l’accompagna): la morte metaforica dell’animale viene ritualizzata, le sue viscere e il suo cuore (rispettivamente strisce di tessuto e un tamburo) rimossi per essere analizzati.
Di certo più esplicita, ma non meno affascinante, la violenza mostrata nel video Down the Eye of Polyphemos: le immagini scaturiscono dalla pupilla del ciclope (forse appena perforata da Nessuno e quindi pienamente conscia della violenza), e noi vi affondiamo come Alice nella tana del Bianconiglio. Ma di certo le meraviglie che vi troviamo in fondo non sono quelle narrate da Lewis Carrol, bensì una serie di filmati che mostrano la penetrazione e la violazione di corpi umani, animali e vegetali.
La violenza ambivalente delle opere di Liao Wen
Quella che l’artista cinese mette in scena, tuttavia, è una violenza che si mostra in tutta la sua ambiguità: è certamente una violenza culturale, così come è naturale. Entrando nella sala successiva, Liao Wen mi spiega: “Era da diverso tempo che cercavo di realizzare un gruppo scultoreo, ma per me era importante che i corpi interagissero, si intrecciassero”. E nella scultura Tears of the Succubus, i due protagonisti non solo sono avvinghiati: interpretano l’atavico dualismo di eros e thanatos. Ben noto è l’esito dell’accoppiamento delle mantidi religiose, e Liao Wen si fa meticolosa regista della scena clue: la femmina tiene fermo il maschio con il suo addome, mentre con le tenaglie attenta alla sua gola, incapace di fermarsi. La violenza naturale è qui istinto, prigione della femmina tanto quanto lo è del maschio. Liao Wen sembra dirci che il rapporto amoroso (così come qualsiasi relazione) conserva sempre una quota di aggressività, di prevaricazione nei confronti di se stessi o dell’altro. Tears of the Succubus è probabilmente l’opera più cruenta in mostra, eppure è equilibrata da un dettaglio, tanto delicato quanto sorprendete: i semi che germogliano sul dorso della femmina. L’atto cannibale e violento della mantide si erge a paradigma esistenziale della coesistenza tra vita e morte, spiegando anche il titolo dell’intera mostra: By devouring it, I learn about the world.
Liao Wen: l’arte è il processo
Quando l’esegesi dell’opera si evince non solo dalle sue caratteristiche percettive, ma anche dal suo processo creativo e dal medium utilizzato, è sempre un buon segno: è la spia di una consapevolezza, da parte dell’artista, di quello che fa e, soprattutto, di come lo fa. “Le mie opere sono per la maggior parte scolpite in legno” mi spiega Liao Wen. “Potrei ottenere risultati simili con altre tecniche (per esempio lo stampaggio tramite calchi) ma non conserverebbe una parte importante, manuale e fisica del processo”. C’è violenza anche nello scolpire: il legno, un tempo appartenente a un essere vivente, diventa corpo sacrificale, un materiale da scalfire, spezzare, levigare, affrontare, uccidere ancora. “Questo mi aiuta a riflettere sulla mia parte violenta e negativa” dice l’artista. Il processo artistico (almeno tanto quanto l’esito) si esplica così come momento di riflessione non solo sull’esecuzione delle opere, ma sulla loro semantica, su quello che raccontano e su chi, attraverso di loro, si fa narratrice.
Alberto Villa
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